07
Ago

Il Clean Power Plan: cosa prevede (realmente) il Piano per l’energia di Obama

Lo scorso lunedì, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha presentato il Clean Power Plan: un piano volto ad incidere sulla strategia energetica nazionale degli USA riducendo le emissioni di gas serra dal settore della produzione di energia elettrica. E’ importante fare chiarezza su questo aspetto in quanto molti media, soprattutto italiani, hanno pubblicato erroneamente titoli come: “Obama: -32% emissioni entro il 2030”, o “Gli Stati Uniti riducono le emissioni di circa un-terzo”.

Andiamo dunque ad analizzare nel merito il Piano e le parti più controverse, non distogliendo l’attenzione dall’insieme delle strategie statunitensi in merito agli impegni per contrastare i cambiamenti climatici.

1) Il “-32%” riguarda un solo settore economico.

Il primo punto importante da sottolineare è che la riduzione delle emissioni (-32%) indicata nel Piano non riguarda tutte le emissioni: bensì, si riferisce esclusivamente a quelle legate al settore della produzione di energia elettrica, il quale nel 2013 (ultimo dato disponibile) è stato responsabile per circa il 31% delle emissioni complessive di gas serra degli Stati Uniti (dettaglio in Figura 1). Il target in questione non riguarda dunque tutte le emissioni dell’economia, ma solo quelle di un settore, pari ad una riduzione di circa 782 Mt CO2 Eq. che, rispetto alle emissioni complessive degli USA nel 2005, e senza considerare altre strategie nazionali annunciate e la capacità di assorbimento da parte delle foreste (i cosiddetti “Sink”), corrisponderebbe ad una riduzione assoluta del 10-11%.

In sintesi, i giornali dovrebbero rivedere i propri titoli: o sostituendo il “-32%” con il “10-11%”, o specificando che il taglio delle emissioni riguarda soltanto la produzione di energia elettrica.

Delle due, l’una.

Fig1

Figura 1 – Ripartizione delle emissioni di CO2 degli USA per settori economici – EPA, “Inventory of U.S. Greenhouse Gas Emissions and Sinks: 1990-2013”, Aprile 2015

 

In ogni caso, quanto sopra non significa necessariamente che il piano sia “positivo” o “negativo”. Ciò dipende in realtà dalle politiche adottate dal Paese in merito alle emissioni complessive: se, infatti, la riduzione delle emissioni del 32% nel settore dell’energia elettrica rappresenta chiaramente una porzione di emissioni inferiore rispetto a quanto ammonterebbe se la percentuale fosse applicata a tutti i settori, dall’altra questo target specifico potrebbe costituire un trend di riduzione più ampio rispetto a quello previsto per lo stesso settore dalle politiche “complessive” precedenti.

Per fornire un esempio, supponiamo che un Paese decida di ridurre le proprie emissioni complessive da una soglia che definiamo essere pari a 30 ad una soglia pari a 20: dunque, una riduzione pari a 10 unità. Supponiamo inoltre che, per raggiungere tale obiettivo, il Paese decida di suddividere queste 10 unità per settori, nel seguente modo:

– 3 unità di riduzione da conseguire nel settore dei trasporti,
2 dalla produzione di energia elettrica,
3 dall’agricoltura,
2 dal settore residenziale.

Ipotizziamo poi che l’anno successivo lo stesso Paese presenti un piano ad hoc per uno di questi settori (ad esempio quello della produzione di energia elettrica) che lo porti a ridurre le emissioni in quel settore di 3 unità.

Si può dire che questa nuova misura costituisca un taglio delle emissioni complessive del Paese di circa un-terzo?

Certamente no.

Tuttavia, l’impatto che questa misura ha sulla strategia nazionale è positivo, in quanto porta alla riduzione di un’unità in più (3 invece di 2) dal settore della produzione di energia elettrica, portando di fatto il target di riduzione complessivo del Paese da 10 ad 11 unità.

Potenzialmente, vi sono dunque i presupposti per cui questo possa essere il caso degli Stati Uniti: bisogna però valutare se vi siano interventi (previsti o già in atto) negli altri settori dell’economia.

 

2) L’anno di riferimento è importante.

La seconda questione fondamentale da chiarire è quella dell’anno di riferimento rispetto cui la percentuale di riduzione è calcolata, altro dettaglio totalmente trascurato dai titoli dei quotidiani. Come si può esprimere giudizi su una percentuale senza il dato base?

Facciamo dunque un passo indietro rispetto alla questione dei settori economici, concentrandoci sull’andamento delle emissioni complessive degli Stati Uniti dal 1990 al 2013, illustrate in Figura 2.

Si può notare chiaramente come le emissioni abbiano raggiunto due picchi (2005 e 2007) prima di cominciare un percorso di decrescita (poco sorprendentemente legato all’inizio della “crisi”), frenato solo nel 2013 da una serie di fattori fra cui un maggiore utilizzo del carbone rispetto al gas naturale ed una crescita dei consumi residenziali per le condizioni più severe della stagione invernale.

Fig2

Figura 2 – Emissioni storiche, per gas, degli Stati Uniti espresse in CO2Eq – EPA, “Inventory of U.S. Greenhouse Gas Emissions and Sinks: 1990-2013”, Aprile 2015

 

E’ interessante analizzare l’andamento delle emissioni a partire e rispetto all’anno di riferimento 1990, ovvero quello utilizzato dall’Unione Europea, dalla Russia, dalla Svizzera, dalla Norvegia e da altri Paesi: è possibile notare tali variazioni ancor più chiaramente in Figura 3, ed osservare come ad eccezione del 1991 le emissioni degli Stati Uniti siano sempre state più alte rispetto ai livelli del 1990, quando ammontavano (Sink esclusi) a 6,301.1 Mt CO2 Eq.

Fig3

Figura 3 – Variazioni nelle emissioni di gas serra USA rispetto al 1990 – EPA, “Inventory of U.S. Greenhouse Gas Emissions and Sinks: 1990-2013”, Aprile 2015

 

Ebbene, ciò significa che rapportando il Piano USA all’anno di riferimento utilizzato dall’Europa il target degli Stati Uniti risulterebbe addirittura in un aumento, anziché una riduzione, delle emissioni fino a quota 6,568.2 Mt CO2 Eq, ovvero un +4% circa rispetto al 1990.

Tutto un bluff, dunque? Probabilmente no.

Effettuare proiezioni ed esprimere giudizi su emissioni complessive nazionali a partire da dati settoriali appare infatti come un approccio troppo poco affidabile, in quanto non tiene conto delle altre misure che possono essere messe in campo relativamente agli altri settori dell’economia. L’unico modo di affrontare la questione con serietà sembra al momento quello di riferirsi ai dati, che secondo questo Piano prevedono per il 2030 emissioni di CO2 Eq nel settore della produzione di energia elettrica pari a circa 1,661.8 Mt, ovvero l’annunciata riduzione del 32% rispetto al 2005 o dell’11% rispetto al 1990.

Tali valori, assieme alla stima – più azzardata – sulle emissioni complessive sono riportati in Figura 4:

Fonti/anni 1990 2005 2030 (stime)
Emissioni da produzione energia 1,864.8 2,443.9 1,661.8
Emissioni complessive 6,301.1 7,350.2 6,568.2
Figura 4 - Sintesi livelli emissioni CO2 da produzione energetica e complessive, relative agli anni 1990, 2005 e 2030. Valori espressi in Mt CO2 Eq.

A questo proposito, si ritiene opportuno accennare al pacchetto di misure nazionali volontarie (INDC) degli Stati Uniti, presentato al Segretariato della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) il 31 marzo 2015. Tale documento riporta un impegno da parte degli USA a ridurre le proprie emissioni (complessive!) del 26-28% entro il 2025, rispetto al 2005 (Figura 5), ricorrendo dunque a misure riguardanti tutti i settori dell’economia.

Ciò lascia intendere come siano effettivamente previste misure anche negli altri settori, e come pertanto il nuovo Piano lanciato da Obama possa effettivamente rappresentare un mezzo concreto per dare seguito o, addirittura, accelerare l’attuazione dell’INDC in quel particolare settore.

Fig5

Figura 5 – Emissioni storiche e proiezioni future degli Stati Uniti – U.S. INDC submission to the UNFCCC

 

In conclusione, il Clean Power Plan di Obama dovrebbe essere giudicato per ciò che è: non una “rivoluzione” energetica, né un grande inganno al mondo per mascherare un aumento delle emissioni. Bensì, un primo passo sostanziale da parte degli Stati Uniti per cambiare rotta, dopo essere stati per anni i grandi assenti dal panorama negoziale internazionale per non aver aderito al Protocollo di Kyoto.

Un primo passo, appunto: in attesa dei successivi, che saranno il banco di prova delle intenzioni americane.

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