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Giu

Tra scienza, diplomazia e politica. Un bilancio dai negoziati intermedi sul clima

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di Jacopo Bencini

Bonn – Giovedì sera intorno alle 22 locali si sono chiusi i negoziati intermedi ONU sul clima per il 2019, in vista della prossima Conferenza globale prevista per dicembre a Santiago del Cile. Tradizionalmente i negoziati intermedi rappresentano un momento meno mediatico, e apparentemente meno politico, delle COP. Nei corridoi non si incontrano quasi mai volti noti al grande schermo, bensì delegati dei ministeri dei vari paesi, negoziatori tecnici, consulenti a supporto delle varie delegazioni e organizzazioni e, non ultimo, attivisti della società civile. I negoziati intermedi rappresentano però anche un momento preparatorio verso le conferenze vere e proprie, e spesso le ordinatissime sessioni negoziali sconfinano dal tecnico al politico, sempre che in diplomazia esista davvero questa differenza.

All’inizio dei lavori a Bonn, due settimane fa, si ripartiva da dove ci si era lasciati a Katowice a dicembre. Dopo quello che molti videro come un inatteso successo del multilateralismo – l’approvazione del Libro delle Regole dell’Accordo di Parigi in una COP polacca ostica fin dalle sue premesse – rimanevano sul tavolo questioni spinose riguardanti gli orizzonti temporali dei contributi nazionali sotto l’Accordo, l’Articolo 6 dello stesso che prevede la creazione di sistemi di mercato e non per la cooperazione fra Stati in termini di scambi di emissioni, l’accettazione, integrazione o negazione del rapporto IPCC su come rimanere entro la soglia minima di un grado e mezzo, il budget del Segretariato per il prossimo biennio, l’ulteriore coinvolgimento della società civile.

Anche quest’anno abbiamo potuto osservare uno schema politico ormai rodato, con l’Arabia Saudita ed altre economie vitalmente legate all’estrazione, vendita e consumo di combustibili fossili in prima linea nell’ostacolare qualsiasi progresso rispetto agli obiettivi dell’Accordo, ed i tanti paesi in via di sviluppo e insulari alla ricerca di sponde politiche da parte dei pochi campioni d’ambizione superstiti dopo il passo di lato degli Stati Uniti di Donald Trump e del Brasile neonegazionista di Jair Bolsonaro – Brasile che peraltro avrebbe dovuto ospitare COP25, salvo poi abbandonare l’idea, sostituito in corsa dal Cile.

Sugli orizzonti temporali dei contributi nazionali in termini di mitigazione ed adattamento, i delegati hanno deciso di prendere tempo, considerato che comunque si tratta di previsioni inerenti il periodo post-2030 – il periodo 2020-2030 risulta invece già coperto dagli attuali contributi, molti dei quali presentati fra 2015 e 2016, redatti da ogni paese con metodologie e orizzonti diversi e comunque sottoposti a revisione ogni cinque anni a partire dal 2023. Su come mettere in pratica le previsioni dell’Articolo 6 dell’Accordo, che prevede meccanismi bilaterali, globali, e non di mercato nella cooperazione fra Stati rispetto alla possibilità di scambio di crediti per emissioni, il negoziato è stato aggiornato alla sessione di Santiago dopo 45 ore di discussione, due iterazioni testuali e, infine, tre diverse bozze per i tre diversi temi affrontati. Bozze decisamente incomplete, cosparse di virgolettati (in diplomazia, frasi per le quali non è ancora decisa una formulazione definitiva), rispetto alle quali alcuni paesi hanno dimostrato profonda delusione. La delegata austriaca, ad esempio, non ha usato mezzi termini nel dire che l’attuale testo rappresenta un netto passo indietro rispetto a Katowice. Vista la situazione alcune delegazioni – Unione Europea, Norvegia, paesi africani, Costa Rica – hanno sottoposto al Segretariato la possibilità di ulteriori negoziati intermedi prima di COP25 per arrivare a Santiago con un testo più completo, ma su questo l’aula non ha trovato consenso, complice il “no” delle delegazioni arabe.

Lo spinoso tema dell’accettazione, integrazione o negazione dei contenuti scientifici del rapporto speciale dell’IPCC sugli scenari possibili per contenere l’aumento delle temperature medie globali entro un grado e mezzo nei procedimenti negoziali è tornato alla ribalta dopo la mezza delusione di Katowice, quando la necessità pragmatica di concentrarsi sull’adozione del Libro delle Regole portò i delegati a posticipare la discussione su un tema, quello del rapporto, spinoso e di grande visibilità. Discussione riaperta e poi chiusa a Bonn, con risultati non certo soddisfacenti per gli Stati più ambiziosi e per le tante organizzazioni della società civile: il consesso delle delegazioni ha ringraziato formalmente l’IPCC per il grande lavoro svolto, accolto (“welcome”) la pubblicazione del rapporto, e niente più. Meglio di niente, ma assai meno di un riconoscimento formale degli scenari e delle proposte di politiche suggerite in ottobre dai più eminenti scienziati globali ai governi del mondo. Se nella diplomazia le parole contano quanto i fatti, questa formula di compromesso rende bene l’idea del clima nei corridoi delle Nazioni Unite quando si parla di impegni onerosi rispetto all’economia o al sistema produttivo del proprio paese. Non sono previste ulteriori sessioni negoziali sul tema.

Altro tema cruciale, sebbene passato ampiamente sotto traccia, è quello del bilancio del Segretariato della struttura ONU che segue i negoziati climatici per il prossimo biennio 2020-2021. Sebbene una decisione formale in merito dovrà essere adottata dai delegati di COP25 fra cinque mesi, è consuetudine che uno schema di bilancio sostanzialmente definitivo venga già pre-adottato durante i negoziati intermedi, per essere poi portato in approvazione nella stessa forma durante la COP. Se a Katowice le delegazioni avevano trovato una quadra rispetto al cosiddetto Pacchetto di Lavoro, ossia a previsioni rispetto ad un aumento complessivo delle capacità tecniche e organizzative del Segretariato con un previsto aumento del budget del 21% rispetto al biennio precedente in risposta alle ambizioni operative emerse in Polonia, già dai primi giorni a Bonn le aspettative si sono notevolmente ridimensionate. Se dopo una settimana di negoziati la proposta era già scesa ad un aumento del 12%, nelle ultime ore si era arrivati addirittura ad una proposta a zero, con l’Unione Europea che ha inutilmente tentato – supportata dai paesi africani e insulari – di attenersi almeno ad un più 9%. Solo nelle ultime ore di ieri i delegati hanno approvato, seppur fra enormi malumori, una proposta a crescita nominale zero più 5%, ossia in pratica un aumento del 2,4% rispetto al biennio precedente, passando da 56,9 a 58,3 milioni di euro complessivi. Questo piccolo aumento non consentirà all’ONU di mettere in campo le azioni previste a Katowice in termini di formazione tecnica, supporto ai paesi in via di sviluppo nella redazione di report e documenti, organizzazione di seminari e workshop e, non ultimo, di ampliamento dell’organico rispetto ai nuovi compiti previsti. Sebbene il bilancio corrente complessivo di UN Climate corrisponda a quello di una cittadina italiana di medio-piccole dimensioni – niente, in confronto ai quasi 200 Stati che ne fanno parte – trovare un accordo è stato difficile complice, di nuovo, una forte opposizione dei sauditi a qualunque proposta migliorativa. I principali contribuenti del bilancio del Segretariato sono, nell’ordine, Stati Uniti (19,3%), Cina (12%), Giappone, Germania, Gran Bretagna e Francia. L’Italia, invece, contribuirà per il 3,3% della spesa complessiva, ossia con €1.941.890 sul biennio.

Tuttavia, questi negoziati intermedi non hanno visto solo battute d’arresto. Sono stati infatti adottati i nuovi termini di riferimento per la revisione, prevista entro il 2019, del Meccanismo di Varsavia sul Loss and Damage, ossia tutte quelle misure monetarie e non monetarie che gli Stati dovranno mettere in campo per evitare, minimizzare ed ammortizzare le conseguenze degli eventi estremi legati ai cambiamenti climatici, tema chiaramente molto sentito dai paesi in via di sviluppo maggiormente esposti – già oggi – a tali eventualità. Sebbene la formulazione “minimizzare” sia contenuta nello stesso Accordo di Parigi, molti paesi emergenti si sono detti contrari alla persistenza di tale dicitura nei futuri documenti di lavoro. Sono state inoltre adottate le linee guida per la revisione del Programma di Lavoro di Doha su Action for Climate Empowerment, un percorso che prevede maggiore coinvolgimento e interscambio tra attori statali e non statali nel contesto dei lavori ONU sul tema.


Molte, quindi, le questioni rimaste aperte in vista della prossima COP cilena, dalla quale non conviene tuttavia aspettarsi sconvolgimenti in positivo del quadro, salvo eventi politici ad oggi non pronosticabili. Da oggi a Santiago, tuttavia, non sono pochi gli appuntamenti politici nei quali il clima potrà giocare un ruolo centrale, a partire dal G20 di Osaka in avvio in queste ore, fino al Summit speciale delle Nazioni Unite previsto per settembre a New York. Nelle parole di una delegata del gruppo dei piccoli stati insulari (AOSIS), “il fatto stesso che si continui a giungere ad accordi unanimi, seppure al ribasso, ben rappresenta la nostra convinta scelta di continuare a puntare sul metodo multilaterale piuttosto che sulla chiusura isolazionistica e nazionalistica”, chiusura che difficilmente potrà portare a risultati tangibili rispetto ad un problema ambientale globale quale quello dei cambiamenti climatici.

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