07
Dic

Un oceano di impatti

di Anna Laura Rassu

“Oceani e clima: l’evidenza svelata” questo il titolo del side event organizzato presso il padiglione WWF, al quale sono intervenuti alcuni importanti esperti che concentrano il loro ambito su questo legame; tra questi Hans Otto Pörtner – Co-Chair del Working Group II dell’IPCC.

“Quello che immettiamo nell’atmosfera non rimane tutto nell’atmosfera, va a finire anche nell’oceano”, ha affermato Steve Widdicombe del Plymouth Marine Laboratory e uno creatori del Global Ocean Acidification Observing Network ( http://www.goa-on.org ), una rete di scienziati che studia l’acidificazione degli oceani.
È ormai chiaro come l’acidificazione dei mari, il “gemello cattivo del riscaldamento globale”, è una minaccia seria per la biodiversità che ospitano. Le acque marine infatti hanno un importante ruolo nella regolazione del ciclo del carbonio, ma con l’accumulo eccessivo di CO2 atmosferica, emessa dalle attività umane, questa si diffonde nei mari, e dopo una certa soglia si dissolve formando acido carbonico e aumentando l’acidità dell’acqua.

Da una parte questo comporta un effetto benefico per l’atmosfera, perché riduce le concentrazioni di gas serra e il conseguente riscaldamento globale, dall’altra per i mari l’aumento dell’acidità è un pericolo per le specie viventi che vi abitano. Non bisogna dimenticare infatti che il 50% della produzione di ossigeno delle specie vegetali del nostro pianeta proviene proprio da specie marine, e che gli oceani sono da sempre una grande riserva di biodiversità.

Con l’aumento delle temperature e dell’acidità molte popolazioni ittiche, anche di importanza economica rilevante, sono sottoposte ad un forte stress e rischiano di diminuire fortemente. Un esempio efficace è stato illustrato da Cliff Law, del neozelandese National Institute of Water and Atmospheric Research e direttore del National Ocean Acidification Programme, che ha mostrato un video sugli effetti dell’ acidità sullo sviluppo degli abaloni (molluschi gasteropodi, o “orecchie di mare”, di grande importanza per le industrie ittiche di molti paesi) che rimanendo senza conchiglia muoiono in grande numero durante lo stato larvale. Un altro esempio sono i coralli, di cui sono noti i fenomeni di sbiancamento. Secondo l’ultimo rapporto dell’IPCC, anche in uno scenario di 1.5 gradi di riscaldamento rischiamo di perderne fino al 70%.

Con Martin Sommerkorn del WWF Arctic Programme si è parlato anche di Artico. Le fredde acque artiche hanno la capacità di assorbire una porzione importante della CO2 atmosferica, ma si stanno scaldando ad una velocità doppia di quella media globale, con il rischio che il loro potere di assorbimento si riduca di molto.

“What happens in the Artic don’t stay in the Artic”.

Si è parlato, poco, anche delle possibili soluzioni.

In Nuova Zelanda si stanno studiando strategie come l’aerazione notturna delle acque, che permette di rimuovere la CO2 dall’acqua e rimetterla in aria, oppure lo scarico in mare dei residui di conchiglie utilizzate, che lo arricchirebbe di carbonati riaumentando così il pH e tamponando l’acidità. Sono stati avviati alcuni studi sull’alcalinizzazione del mare, che potrebbe servire per contrastare l’acidificazione, aumentare così l’assorbimento di CO2 e contrastare il riscaldamento globale.

Vi segnaliamo il sito www.oceansofimpact.global in cui sono reperibili molte informazioni sull’impatto che il Global Warming ha sugli oceani e la piattaforma Pier2Peer di GOA-ON: un’iniziativa inclusiva che comprende corsi di formazione on line per permettere a chiunque voglia di aggiungersi alla rete di monitoraggio dell’acidificazione.

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