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24
Set

CLIMA E DECOLONIALITÀ: IL CASO SAMI

Per il Caleidoscopio, la nostra rubrica di approfondimenti che punta a chiarire teorie e riflessioni sviluppate dal movimento femminista, questo mese affrontiamo il tema dell’intersezione tra cambiamento climatico e decolonialità. In particolare, attraverso le teorie femministe di Rachele Borghi e bell hooks spiegheremo e approfondiremo perché è importante il sapere indigeno, custodito soprattutto dalle donne, e la sua inclusione nelle politiche climatiche, portando come esempio la comunità indigena dei Sámi.
Buona lettura.

È noto che le popolazioni indigene svolgono un ruolo significativo nella protezione della biodiversità, grazie a conoscenze tradizionali di gestione del suolo, dell’acqua e della vegetazione tramandate di generazione in generazione. Eppure, sono anche tra le comunità più colpite dai cambiamenti climatici a causa di pre-esistenti disuguaglianze di base. Esplorando le cause di tali disuguaglianze, nel precedente articolo del Caleidoscopio  abbiamo introdotto il concetto di intersezionalità, che aiuta a comprendere come le sovrapposizioni di genere, razza e classe e di altri elementi identitari (disabilità, etnia, età, appartenenza a una minoranza etc) creino specifiche dinamiche di oppressione e privilegio, e di come queste siano ulteriormente esacerbate dai cambiamenti climatici.

Ripartendo da qui aggiungiamo un altro tassello, trattando il tema della colonialità del sapere, ovvero del processo di delegittimazione del sapere indigeno e della contestuale esaltazione dell’Occidente come unico produttore di conoscenza avviato dai Paesi Europei con la colonizzazione.

Per farlo portiamo l’esempio del popolo Sámi, che abita la regione comprendente il nord della penisola scandinava e la penisola di Kola, in Russia (ne avevamo parlato qui). L’esistenza dei Sámi è molto legata all’habitat in cui vivono e alle risorse naturali locali, sia per le loro pratiche culturali che per la loro economia tradizionale, che include l’allevamento di renne, la pesca e la raccolta delle piante. Tuttavia gli effetti negativi dei cambiamenti climatici stanno mettendo a dura prova lo stile di vita tradizionale di questo popolo e la sua stessa esistenza.

I valori Sámi includono un profondo legame con la natura, la consapevolezza che il benessere e il sostentamento dipendono dall’ambiente, e un forte rispetto per le tradizioni culturali. Tali valori sono custoditi e tramandati in gran parte dalle donne della comunità Sámi. Le donne infatti, con il loro ruolo centrale nella vita quotidiana e nelle pratiche culturali, contribuiscono significativamente alla preservazione della biodiversità e alla vita in armonia con le loro terre, attraverso la trasmissione dei saperi tradizionali e la continua pratica delle tradizioni. Le donne dunque non sono solo un gruppo sociale vulnerabile ai cambiamenti climatici, ma sono anche – in modo particolare in questo caso – portatrici di conoscenze preziose per affrontarli (ne abbiamo parlato anche qui). Tuttavia, questo prezioso sapere indigeno ancora fatica a essere riconosciuto e valorizzato, tanto da risultare nei fatti invisibile.
Con la colonizzazione dei popoli ‘altri’ (popoli non-europei), i Paesi europei e poi quelli del c.d. ”Occidente collettivo” (inclusi Stati Uniti d’America, Canada, Australia etc.) hanno introdotto l’idea che gli elementi chiave della modernità dovessero essere il progresso, l’evoluzione tecnologica e lo sviluppo, imponendoli come unici paradigmi possibili di rappresentazione e interpretazione del mondo.

Popoli ‘altri’
La nozione di popolo ‘Altro’ (‘Other’), adottata nell’ambito delle teorie sul postcolonialismo, è usata per criticare i processi con cui l’Occidente ha decostruito e ricostruito l’identità di chi non è considerato Europeo/Occidentale durante la colonizzazione. La colonizzazione e la relativa ‘altrizzazione’ (‘Otherization’) dei popoli che non erano e non sono considerati Europei/Occidentali è vista da alcuni autori come il frutto di un progetto imperiale di dominazione ideologica e razziale, l’Eurocentrismo (o L’Occidentalismo), ‘verità’ che comporta la necessaria emarginazione di tutto il resto.


Questo ha determinato la marginalizzazione o la perdita dei saperi ‘altri’ (non-Occidentali), attraverso pratiche di denigrazione e di annientamento delle popolazioni indigene e dei loro patrimoni culturali e di conoscenza. Tale processo di delegittimazione del sapere ‘altro’ è ció che Rachele Borghi chiama epistemicidio, una parola che unisce il termine greco epistème (ἐπιστήμη: conoscenza, scienza) con il termine omicidio. 

Questa pratica è il risultato del sistema di potere/dominazione chiamato in letteratura ‘colonialità’ dei popoli ‘altri’ (da cui la colonialità del sapere e del potere) affonda le radici nella colonizzazione e ha resistito alla decolonizzazione. 

Colonialità, epistemicidio e decolonialità
Come spiega Rachele Borghi, professoressa di Geografia all’Università Sorbona di Parigi, la parola ‘colonialità’ deriva dalla crasi tra modernità e colonialismo e serve a indicare quelle (violente) dinamiche di potere/dominio iniziate con la colonizzazione di cui la modernità (il periodo dal 1942 in avanti) è ancora ampiamente imbevuta, nonostante i Paesi ‘altri’ colonizzati abbiano avviato e attuato dei processi di decolonizzazione. Borghi spiega che la modernità coloniale non è caratterizzata solo dal genocidio delle popolazioni, ma anche dalla delegittimazione dei saperi subalterni, che indica con il termine epistemicidio. I modelli culturali egemoni imposti dalla colonialità non solo non rappresentano le minoranze, ma tolgono loro gli strumenti per parlare della propria esperienza, ignorandole. L’ignoranza diventa così conoscenza, dal momento che è il dominante a produrla, esercitando una violenza epistemica. Per questo Borghi sottolinea che per uscire dal colonialismo non ci si può limitare a decolonizzare, ma occorre decolonializzare, fare cioè lo sforzo di uscire dagli schemi di pensiero creati dalla colonialità, mettere in discussione l’Occidente come unico soggetto produttore della conoscenza.


Tali processi hanno interessato anche la popolazione Sámi (popolo ‘altro’): la colonizzazione violenta e sistematica da parte dei Paesi europei scandinavi ha determinato la cancellazione forzata di cultura, lingua e tradizioni indigene e alcune di queste dinamiche si sono trascinate fino a oggi. 

Di recente, gli allevatori di renne Sámi si sono opposti ad alcuni progetti di ‘transizione verde’, ovvero l’installazione di impianti eolici e solari nei loro territori, per paura di possibili alterazioni degli habitat locali, minacce alle specie vegetali e animali, sottrazione dei terreni di pascolo per le renne. 

Può accadere, infatti, che simili progetti infrastrutturali, pur meritori in termini assoluti, vengano autorizzati senza una previa consultazione delle popolazioni locali e che in alcuni casi prevedano l’allontanamento forzato delle popolazioni indigene dalle loro terre natie, rendendole ancora più esposte e vulnerabili ai cambiamenti climatici (ne avevamo parlato qui). Questo significa che anche la ‘transizione verde’ può essere, se non accompagnata da oculate misure di tutela e partecipazione, veicolo di riproposizione e rafforzamento degli squilibri di potere esistenti, se non gestita correttamente, fino al potersi configurare in casi gravi e gravissimi come colonialismo verde“. 

Tuttavia, l’emarginazione e dunque lo spazio di margine a cui queste popolazioni e i loro saperi sono relegati può costituire qualcosa di più di un semplice luogo di privazione

Elogio del margine
bell hooks (volutamente in caratteri minuscoli), teorica femminista statunitense della seconda metà del ‘900, sulla base della sua esperienza di donna nera segregata ha identificato lo spazio a cui lei e le persone non bianche sono state relegate (il margine) come luogo da cui ripartire per sfidare lo spazio egemonico dominante (il centro). Secondo hooks, la marginalità è un luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza. Questa marginalità, definita spazialmente strategica per la produzione di un discorso contro-egemonico, è presente non solo nelle parole, ma anche nei modi di essere e di vivere. È un luogo in cui abitare e a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la capacità di resistenza di un gruppo emarginato. Il margine, a cui si giunge attraverso sofferenza, dolore e lotta, è dunque caratterizzato da quella cultura segregata di opposizione che è la risposta critica al dominio.


Il margine può rappresentare un luogo da cui ripartire per avviare il processo di decolonializzazione auspicato da Borghi, per sfidare e mettere in discussione il sistema egemonico occidentale e così le istituzioni che lo promuovono in modo dannoso o distorto come unico soggetto legittimo di produzione del sapere. Il caso norvegese di Fosen ne è una dimostrazione. 

Nel 2021 la Corte Suprema norvegese ha stabilito che i parchi eolici costruiti nell’area di Fosen violavano i diritti degli allevatori di renne Sámi, chiedendo la revisione e la modifica dei progetti di sviluppo al fine di tenere conto dei diritti delle popolazioni indigene. La Corte si è fortemente basata sulla ricerca presentata da una testimone, Anna Skarin, con riferimenti sia alla scienza che alla conoscenza tradizionale Sámi. Questi studi hanno evidenziato gli effetti avversi dei parchi eolici (in determinate condizioni) sulle renne, includendo i risultati della coproduzione di conoscenza scientifica, che comprende anche i saperi dei pastori di renne Sámi. 

Questo caso è prezioso per tre ragioni, perché dimostra che:

1) il sapere indigeno è essenziale per valutare gli impatti negativi di alcuni progetti, e offre un’opportunità per mettere in discussione e sfidare le dinamiche di potere coloniale così come l’idea della conoscenza occidentale come unica fonte di sapere.

2) l’inclusione di tali saperi tradizionali nelle politiche climatiche consente una benefica co-produzione di conoscenza, unendo virtuosamente scienza e tradizione indigena; 

3) i custodi del sapere delle comunità indigene (spesso individuati nelle donne indigene) possono svolgere un ruolo centrale per far incontrare tradizione e scienza, così da creare terreno fertile per lo sviluppo di strategie utili ad affrontare cambiamenti climatici e perdita di biodiversità.

In questo contesto il diritto, e in particolare i diritti umani, possono giocare un ruolo fondamentale. Il quadro legale dei diritti umani è infatti diventato sempre più rilevante nelle decisioni dei tribunali nazionali a favore dei popoli indigeni. Tra il 2019 e il 2022, le decisioni della Corte Suprema sui casi di Fosen, Veahčajohka e Girjas hanno stabilito che i diritti culturali dei Sámi erano stati violati, citando la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (1966), la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) e la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (2007). Così, il diritto internazionale in materia di diritti umani è oggi uno strumento a tutela della cultura Sámi. 

Si tratta di elementi importanti per poter affrontare efficacemente i cambiamenti climatici. Servono approcci inclusivi, intersezionali e decolonializzati, che tengano conto anche delle prospettive indigene, e soprattutto delle donne indigene, nel processo decisionale e nell’implementazione di azioni di adattamento e mitigazione climatica, per compiere passi significativi verso nuovi modelli di sviluppo etici e sostenibili per tutti.

Articolo a cura di Cecilia Robellini, Volontaria della sezione Diritti e Clima di Italian Climate Network.

Questo articolo fa parte de Il Caleidoscopio, la rubrica di approfondimenti che punta a chiarire teorie e riflessioni sviluppate dal movimento femminista, calandole nel contesto delle tematiche legate al clima per capire meglio le richieste e i concetti di azione climatica e giustizia climatica. Come il caleidoscopio restituisce immagini plurime sempre diverse, le nostre riflessioni femministe vogliono restituire un’immagine pluriversale del mondo e fornire strumenti utili a renderlo più equo, inclusivo, giusto e sostenibile.
Direzione e Coordinamento di Erika Moranduzzo, Coordinatrice della Sezione Diritti e Clima di Italian Climate Network.

Fonti:

  • The significance of Sámi rights. Law, justice and sustainability for the indigenous Sámi in the Nordic countries. Edited by Dorothée Cambou, Øyvind Ravna.
  • Decolonialità e privilegio – pratiche femministe e critica al sistema mondo. Rachele Borghi.
  • Elogio del margine-Scrivere al buio (Italian Edition). bell hooks.
  • Postcolonial Theory and Law: A critical introduction, 29 Adelaide Law Review 2008. Alpana Roy. 

Foto di copertina:
Manifestazione di attiviste e attivisti Sami in Svezia, con la partecipazione di Greta Thunberg e altre persone di Fridays for Future, nel febbraio 2022.

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