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05
Nov

COP16, il Sud del mondo contro i Paesi più ricchi: rimandato l’accordo cruciale sulla finanza

Si è conclusa a Cali, in Colombia, la sedicesima Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite (COP16) sulla protezione della natura e della biodiversità. COP16 è stata più volte descritta come la COP dell’implementazione, essendo la prima Conferenza delle Parti dopo l’approvazione dello storico Accordo internazionale Kunming-Montreal o Quadro Globale della Biodiversità (GBF Global Biodiversity Framework), che ha colmato il vuoto normativo a tutela della biodiversità fino al 2030. A Cali si sono fatti alcuni passi avanti importanti, come la creazione del Fondo Cali (Cali Fund) per i pagamenti per l’utilizzo delle informazioni genetiche ricavate dalla biodiversità nella loro ricerca e sviluppo (DSI) e l’istituzione di un organismo permanente in cui le comunità indigene e locali possano consultarsi ufficialmente sulle decisioni delle Nazioni Unite in materia di biodiversità.

Tuttavia non è stato possibile trovare un accordo per colmare il mostruoso gap finanziario necessario per conservare e ripristinare la natura, e questo mette a repentaglio l’attuazione stessa del Quadro Globale della Biodiversità (GBF).
Venerdì 1 Novembre notte dopo le 5 del mattino ora locale di Cali, la plenaria finale è stata sospesa dopo che un gruppo di Paesi sviluppati – tra cui l’Unione Europea, il Giappone, il Canada, l’Australia, la Norvegia e la Svizzera – si sono opposti alla proposta di istituire un nuovo fondo per il ripristino della natura nei paesi più poveri, sostenendo che ciò avrebbe complicato il panorama dei finanziamenti senza garantire la raccolta di nuovi fondi.

La decisione ha provocato l’ira delle nazioni africane e latinoamericane che si sono rifiutate di continuare le negoziazioni per approvare gli ultimi punti in agenda. La plenaria è stata bloccata dalla delegazione di Panama, che ha chiesto al segretariato di controllare la presenza del quorum in sala, richiesta che ha portato la Presidente della COP16 Susanna Muhamad a bloccare i lavori della plenaria conclusiva. I lavori riprenderanno quindi ai prossimi negoziati intermedi nel 2025, con un accordo che potrebbe slittare in avanti di un anno o, ancora peggio, al 2026 in occasione della prossima COP17.

Ma andiamo con ordine, analizzando di seguito i temi principali discussi in Colombia: 

Le strategie nazionali (NBSAPs)

In Colombia, i governi dovevano presentare i piani e le strategie nazionali (National Biodiversity Strategies and Actions Plans NBSAPs) su come intendono raggiungere gli i goals e targets identificati dal Quadro Globale della Biodiversità (GBF Global Biodiversity Framework). Prima dell’inizio di COP16, Carbon Brief e il Guardian avevano stimato che l’85% dei paesi non avrebbe presentato le proprie strategie nazionali. Tra i grandi assenti per esempio il Brasile, che l’anno prossimo ospiterà la COP30 sul clima e ha giustificato il ritardo affermando di stare elaborando una strategia pluridecennale. Gli altri grandi assenti sono Regno Unito e Stati Uniti e USA (quest’ultimo, unico paese insieme al Vaticano che non fa neanche parte della Convenzione Onu per la Biodiversità CBD). 

Solo 43 paesi più l’UE (il 18% degli Stati membri della Convenzione CBD) hanno presentato le loro strategie nazionali e piani d’azione (NBSAP) aggiornate alla luce del nuovo Quadro Globale della Biodiversità, con oltre 150 paesi che devono ancora farlo. Questo numero fa pensare che i governi non stiano prendendo abbastanza sul serio l’Accordo e l’urgente bisogno di un’azione globale per proteggere la natura, nemmeno a pochi giorni dalla devastante alluvione che ha colpito Valencia: come ha ricordato Florika Fink-Hooijer, Direttrice per l’Ambiente della Commissione Europea, proteggere la natura può aiutare a mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici che hanno causato la recente catastrofe spagnola.

Ci sono abbastanza soldi per proteggere la natura?

Come nelle Conferenze sul clima, ormai il successo delle COP sulla natura si gioca intorno al tema cruciale della finanza, ossia: ci sono abbastanza soldi per proteggere la natura?
Nel 2022 la finanza era stato il nodo chiave di COP15
(l’avevamo raccontato qui): nel testo finale dei negoziati era stato riconosciuto che esiste un gap finanziario di 700 miliardi di dollari all’anno che devono essere stanziati a tutela della biodiversità ed era stato previsto (nel target 19) di mobilitare almeno 200 miliardi di dollari all’anno entro il 2030. Inoltre, i Paesi in via sviluppo erano riusciti a ottenere che i Paesi più ricchi mobilitassero in loro favore 20 miliardi di dollari l’anno entro il 2025 e 30 miliardi di dollari all’anno entro il 2030. Ed era stato un compromesso, dato che i Paesi meno sviluppati avevano inizialmente richiesto 100 miliardi di dollari l’anno.
L’altro tema di discussione era stato se si trattassero di fondi aggiuntivi, o di una cifra compresa all’interno dei 200 miliardi di dollari l’anno previsti dall’accordo. Il compromesso era stato trovato sulla seconda opzione (20 miliardi compresi nei 200 miliardi). 

Ricordiamo che adeguati fondi finanziari per proteggere la natura sono fondamentali per il successo del Quadro Globale della Biodiversità (GBF Global Biodiversity Framework) e che il tema della finanza è particolarmente delicato perché la mancanza di fondi finanziari adeguati è stata una delle principali cause del fallimento dei precedenti obiettivi per il decennio 2010-2020, i target di Aichi. 
Tuttavia, gli impegni presi finora sono stati ben lontani dal colmare il divario finanziario di 700 miliardi di dollari all’anno per la biodiversità.
Greenpeace ha definito “assordante” l’ assenza di promesse finanziarie credibili da parte dei governi ricchi a Cali, e preoccupante la presenza di lobby aziendali a COP16.

Tra le maggiori criticità c’è il fatto che non esiste una definizione concordata a livello internazionale di finanza per la biodiversità. E questo è un problema importante, perché porta a stime confuse su quanto i Paesi stiano contribuendo finanziariamente alla protezione della natura. Secondo l’OCSE i paesi sviluppati, compresi gli Stati Uniti, hanno contribuito con 12,1 miliardi di dollari al finanziamento della biodiversità nel 2022, con un aumento del 3% rispetto al 2021. Inoltre, secondo un’analisi di Carbon Brief solo tre Paesi hanno contribuito in modo adeguato facendo la loro parte per la finanza per la biodiversità: Germania, Norvegia, Svezia. Sempre secondo Carbon Brief, l’impegno dell’Italia è insufficiente: il nostro Paese sta contribuendo a meno del 35% di quello che dovrebbe investire a protezione della natura. Inoltre l’Italia ha presentato una strategia nazionale aggiornata caricandola solo in italiano e non in inglese, e ha partecipato alla plenaria della COP16 con un sottosegretario, neanche col ministro.

Il WWF ha dichiarato che il disaccordo tra donatori e Paesi in via di sviluppo poco prima della sospensione della riunione non è purtroppo sorprendente, ma certamente deludente. A pochi giorni dalla COP29 sul clima, la mancata decisione su un fondo danneggia la fiducia tra i paesi del Sud e del Nord del mondo e mette a rischio il raggiungimento degli obiettivi per la natura del 2030.

Misurare il progresso

L’altro nodo chiave è: come misuriamo i progressi? I Paesi hanno approvato i 23 obiettivi contenuti all’interno del Quadro Globale per la Biodiversità due anni fa, ma non hanno deciso in che modo verrà misurato il successo. Si tratta di un altro tema delicato: una delle principali ragioni del fallimento degli obiettivi di Aichi, infatti, era stata proprio la mancanza di un sistema di monitoraggio dell’implementazione.

Durante i negoziati a Cali è circolata una bozza di testo di oltre 300 pagine, con proposte di indicatori per misurare i 23 targets e 4 goals contenuti nell’Accordo. Per esempio si è discusso se misurare il successo di uno degli obiettivi, monitorando il numero di Paesi con politiche a tutela della biodiversità attraverso domande come “Il vostro Paese ha politiche e/o piani d’azione volti a garantire l’uso sostenibile della biodiversità?” o “il vostro Paese monitora l’uso sostenibile della biodiversità?” Oppure misurare il successo del target 15, che prevede di incoraggiare il settore privato a fare la propria parte nel proteggere la natura, contando il numero di aziende che rendicontano i loro impatti sulla biodiversità e rischi legati a una natura in salute. Purtroppo questo era uno dei punti in agenda che avrebbe dovuto essere approvato alla chiusura di COP16, quando è stata interrotta la Plenaria conclusiva. 
Inoltre non sembra sia stata presa nessuna decisione su quando vada effettuata l’analisi globale dell’ambizione collettiva o global stocktake

Le popolazioni indigene, guardiane della biodiversità

Le Popolazioni Indigene rappresentano circa il 5% della popolazione mondiale ma proteggono una parte importante della biodiversità globale. Rispettare i diritti e la leadership delle Popolazioni Indigene è una questione di giustizia, ma è anche l’unico modo per garantire il successo dell’attuazione del Quadro Globale per la Biodiversità Kunming-Montreal. Uno dei successi a Cali è stato quello di istituire un organo per garantire che le Popolazioni Indigene siano incluse in modo effettivo all’interno del processo decisionale sulla biodiversità. L’organismo permanente in cui le comunità indigene e locali possono consultarsi ufficialmente sulle decisioni delle Nazioni Unite in materia di natura. Inoltre a Cali è anche stato approvato un testo più specifico volto a riconoscere il ruolo delle comunità africane nella conservazione.

Finalmente un’equa condivisione per l’utilizzo delle informazioni genetiche ricavate dalla biodiversità?  

Tra le buone notizie c’è la decisione di creare un fondo, denominato “Fondo Cali” per i proventi derivanti dall’utilizzo delle informazioni genetiche ricavate dalla biodiversità (o digitial sequencing information, DSI, in inglese).  
Sabato 1 novembre i Paesi hanno trovato l’accordo su come le aziende debbano pagare per l’utilizzo delle informazioni genetiche ricavate dalla biodiversità. I pagamenti dovrebbero generare miliardi di dollari che verranno destinati alla protezione della natura. Inoltre è stato previsto che il Fondo distribuisca metà del ricavato alle Popolazioni Indigene e alle comunità locali. Ciò consentirà a queste comunità di condividere finalmente i profitti.

I dati genetici provenienti dalla natura vengono utilizzati in un’ampia gamma di prodotti, dal riso arricchito di sostanze nutritive ai jeans denim stone washed. Tra i settori più coinvolti, che saranno tenuti a pagare al fondo una quota dei profitti per l’utilizzo di materiale genetico, c’è il settore farmaceutico, quello cosmetico e quello della biotecnologia.
I dettagli dell’erogazione sono ancora in fase di definizione, ma i Paesi hanno stabilito che il fondo dovrà essere finanziato con pagamenti da parte di aziende qualificate, che dovranno contribuire con lo 0,1% dei loro ricavi o l’1% dei loro profitti.

Kirsten Schuijt, Direttore generale del WWF International, ha detto che il Fondo Cali, “sebbene imperfetto e con molti dettagli ancora da definire, garantisce che le aziende che traggono profitto dalla natura contribuiscano equamente alla conservazione della biodiversità e indirizzino i finanziamenti essenziali alle persone e ai luoghi che ne hanno più bisogno“.

Cambiamenti climatici e biodiversità 

È stato raggiunto un accordo per includere nel testo finale una parte dedicata al legame tra la biodiversità e i cambiamenti climatici, che la Presidente della COP16 Susana Muhamad ha sottolineato più volte essere essenziale in vista della COP29 sul clima al via lunedì 11 novembre a Baku, in Azerbaijan. L’impegno delle parti a rafforzare l’allineamento di NBSAP e Nationally Determined Contributions (NDC) e a esplorare una più forte collaborazione tra le convenzioni sul clima e sulla biodiversità, nonché un migliore monitoraggio delle fonti di finanziamento per evitare il doppio conteggio dei finanziamenti per la natura e il clima sono temi essenziali. Infatti, le sfide create dalla crisi climatica e quelle relative alla crisi della biodiversità sono interconnesse e non si possono affrontare a compartimenti stagni. Diverse analisi ci dicono che il 30% della mitigazione delle emissioni di gas climalteranti dovrebbe venire dalla natura, e quindi non riusciremo a raggiungere l’obiettivo di Parigi se non proteggiamola biodiversità e gli ecosistemi naturali.

In Armenia la prossima COP sulla biodiversità, nel 2026

Durante la COP16 è stata decisa anche la sede della prossima COP17 che si terrà nel 2026. Si sono candidati per ospitare la conferenza sia l’Azerbaijan che l’Armenia, Paesi in aperto conflitto per il territorio conteso del Nagorno-Karabakh: a Cali è stato deciso che tra due anni ci si ritroverà in Armenia, probabilmente a Yerevan, la capitale. 

Per concludere, il tema di COP16 era “pace con la natura” e il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Gueterres ha più volte esortato a “porre fine alla guerra contro la natura scatenata dall’uomo”. Per farlo però servono fondi finanziari adeguati, servono delle strategie nazionali ambiziose e un impegno ambizioso condiviso dai Paesi sviluppati.
Le sfide davanti a noi sono di portata storica. La natura si sta degradando a un ritmo senza precedenti, e la mancanza di ulteriore ambizione climatica nel ridurre le emissioni di gas serra sta portando a un aumento delle temperature tra il 2.6 C° e oltre i 3 C°, come ci ha ricordato l’Emissions Gap Report 2024.
Speriamo di vedere un rilancio dell’ambizione a Baku, perché a Cali si sarebbe potuto, e dovuto, fare di più.

Articolo di Margherita Barbieri, volontaria di Italian Climate Network.

Immagine di copertina: IISD/ENB | Mike Muzurakis.

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