COP30, UNA MISSIONE STORICA: GUARDARE OLTRE PARIGI
Manca poco più di un mese al via della COP30 sul clima, che quest’anno per volere del presidente brasiliano Lula si terrà nel cuore della foresta amazzonica, a Belém do Parà. Se negli ultimi mesi l’attenzione giornalistica si è concentrata sulla logistica oggettivamente invalidante di una COP decentrata voluta dal presidente federale prima, dal governo statale e locale poi (peraltro da parti opposte dello spettro politico), crediamo oggi utile fornire una panoramica sulle aspettative rispetto al negoziato vero e proprio.
Una “spinta da fuori”: le iniziative extra-negoziali
È necessario innanzitutto distinguere, come sempre e ancor più quest’anno, tra cosa accadrà dentro le sale negoziali vere e proprie, e cosa accadrà a margine di quelle riunioni. Basandoci sulle ormai sette lettere inviate ai delegati del mondo dal presidente della COP, l’esperto negoziatore Andrè Correa do Lago, sembra che la presidenza vorrà concentrarsi sul secondo aspetto, ossia su tutte quelle iniziative collaterali che la presidenza stessa spera di riuscire a mettere in piedi prima e durante le due settimane del vertice. Una diplomazia del clima a due velocità che ricorda molto da vicino quanto visto nel 2021 a Glasgow, con il fortissimo investimento di capitale politico del governo di Boris Johnson che portò alla firma di una serie allora rilevante di accordi extra-negoziali su carbone, nuovi giacimenti oil and gas oltremare, metano e deforestazione, mentre nelle sale si continuava a discutere (come avremmo visto sul finale) di phase out e phase down.
Alcune di quelle iniziative e promesse sono rimaste su carta, complici i violenti e repentini cambiamenti nello scenario geopolitico internazionale. Ma, ammettiamolo, anche a causa dello scarso impegno da parte di alcuni Paesi, che nella concitazione della COP si erano trovati a sottoscrivere promesse collettive e di alto livello quasi a traino di quella force majeure imposta dalla presidenza britannica, desiderosa di chiudere la COP con risultati ambiziosi, prestigiosi, in ultima analisi visibili, sottovalutando però platealmente il dossier finanziario. Un errore che avrebbe poi influenzato la storia di tutte le COP successive.
Quattro anni dopo, e dopo aver adottato all’ultimo minuto utile di Baku il nuovo obiettivo finanziario globale (tra i mugugni di molti), il Brasile si presenta alla vigilia della COP, tra un viaggio e l’altro di Correa e del suo staff in questa fase di intensa pre-tessitura, con sei “assi” tematici di azione: energia, industria e trasporti; foreste, oceani e biodiversità; agricoltura e sistemi alimentari; città, infrastrutture e acqua; sviluppo umano e sociale; temi e problemi trasversali agli altri. Ognuno di questi “assi” di azione verrà quindi declinato in un calendario di giornate tematiche già disponibile sul sito della Conferenza.
Non solo. Tra le numerose iniziative già lanciate dalla presidenza nei mesi precedenti la COP ne spiccano tre, altamente simboliche: l’invito a riunire, a partire da Belém, le presidenze delle tre COP su clima, biodiversità e desertificazione verso una maggiore interoperabilità del lavoro delle tre convenzioni di Rio 1992, punto peraltro da sempre presente nelle proposte di policy di Italian Climate Network; la creazione del “cerchio” dei Ministri delle finanze, a sostegno del percorso avviato a Baku verso una mobilitazione finanziaria globale per il clima che passi anche dalla ristrutturazione delle banche multilaterali di sviluppo; infine, la creazione del “cerchio” delle presidenze delle COP da Parigi in poi, presieduto nientemeno che dal presidente di COP21 Laurent Fabius, con l’obiettivo di ridare vita a quello che in molti Ministeri amano ancora chiamare “lo spirito di Parigi”, ossia una concertazione globale allargata e inclusiva delle nuove economie, basata sul principio di piena partecipazione di tutti gli attori, che portò alla fortunata stesura di un nuovo testo post-Copenhagen tra il 2010 e il 2015, l’Accordo di Parigi.
Come a Parigi nel 2015 e poi nel 2021 a Glasgow, sarà lecito aspettarsi un numero importante di dichiarazioni di alto livello, nuovi impegni sui principali temi selezionati dalla presidenza firmati da gruppi rilevanti e numerosi di Paesi, come anche il lancio di nuove e concrete iniziative multi-stakeholder in collaborazione con attori non-statali e privati. Il principale elemento di diversità rispetto a COP21 e COP26 risiederà nel fatto che la maggior parte di queste iniziative sarà a trazione Global South, con i partner occidentali nel ruolo di gregari e non più di guida, pur con importanti responsabilità storiche e quindi finanziarie.
Sarà interessante seguire da vicino le principali nuove iniziative anche per capire quali attori privati verranno coinvolti, vista da un lato la crescente influenza nei negoziati di alcuni attori filantropici internazionali (come Bloomberg Philantropies e altri), dall’altro, il ritiro dalla scena climatica dei principali colossi Big tech statunitensi, vuoto che verrà probabilmente colmato da attori di diverso passaporto.
Un’agenda “procedurale”
L’agenda negoziale vera e propria non sembra, a oggi, riservare grandi sorprese – anche se per l’immissione in agenda di eventuali nuovi punti rispetto a quella pubblicata a inizio settembre dovremo attendere la preCOP di metà ottobre.
Questo significa che al momento troviamo, tra le agende di COP, CMP e CMA, SBI e SBSTA (le differenti configurazioni attraverso le quali i Paesi aderenti alla Convenzione, al Protocollo di Kyoto, all’Accordo di Parigi si incontrano secondo membership) sostanzialmente gli stessi punti negoziali degli ultimi anni sui principali temi – un’agenda di fatto procedurale, volta a riaprire la discussione su tutti i tavoli, a partire dal complesso negoziato sulle misure di adattamento e il loro finanziamento, con relativi indicatori, fino alle politiche di genere in ambito climatico. Ricompaiono in agenda punti che erano statirimandati a Baku – come il Programma di lavoro sulla Mitigazione, caro all’Unione Europea, il Programma di lavoro sulla Giusta Transizione, ma anche gli ormai tradizionali punti “inaugurali” e se vogliamo provocatori sulle misure commerciali unilaterali e sulla revisione della membership Annex I e Annex II proposti da membri del gruppo G77 (il secondo, in particolare e per l’ennesima volta, dalla Federazione Russa).
A COP30 le delegazioni saranno chiamate a esprimersi con decisioni corali e formali su una serie di report di natura finanziaria, in particolare sul Green Climate Fund, sulla Global Environmental Facility e, per la prima volta, sul Fondo Perdite e Danni. Si noti che queste decisioni sui report dei diversi strumenti finanziari sono attese e previste secondo precedenti decisioni e non secondo iniziativa della presidenza. I tre tavoli interagiranno in ogni caso con la più ampia e parallela discussione sulla mobilitazione finanziaria rispetto all’NCQG per come adottato a Baku, discussioni che con ogni probabilità vedremo avvenire sotto il filone “Long term finance”, trasversale alle varie configurazioni negoziali.
Si tornerà a parlare dell’implementazione del Global Stocktake del 2023, in particolare in configurazione CMA (dove presenziano i Paesi aderenti all’Accordo di Parigi), attraverso più tavoli divisi su più punti negoziali. Questo filone potrebbe tradursi in uno dei percorsi più accidentati di questo negoziato, visti i numerosi problemi (anche solo in termini di interpretazione del mandato negoziale) rilevati a Baku un anno fa e la contemporanea assenza, se vogliamo più politica che formale, del documento-chiave che avrebbe dovuto sostenere il traghettamento da COP30 verso il secondo stocktake del 2028, il nuovo NDC Synthesis Report della UNFCCC che come sappiamo arriverà in COP mutilato, privo dei dati sui piani clima di Unione Europea e Cina, e comprendente invece il vecchio NDC statunitense prodotto dall’amministrazione Biden, ormai carta straccia.
Proseguiranno invece i negoziati sullo sviluppo dell’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi, relativo alla cooperazione tra Stati tramite meccanismi di mercato e non di mercato. A COP29 sono state adottate importanti decisioni sui registri interoperabili e sulle metodologie, in particolare quelle relative ai progetti approvabili sotto il nuovo meccanismo globale PACM (Articolo 6.4), corredate di misure cautelative innovative quali il meccanismo di appello e la creazione obbligatoria di crediti di salvaguardia. Lecito aspettarsi un negoziato come al solito più operativo sull’implementazione dei filoni 6.2 e 6.4, complice anche la necessità di rifinanziare il lavoro del Supervisory Body rimasto a secco di fondi, mentre potrebbero arrivare sorprese sul negletto filone sugli approcci non di mercato sotto l’Articolo 6.8, da sempre caro ad alcuni Paesi sudamericani, se la presidenza spingerà in tal senso.
Servirà una cover decision
Nel 2021, quella Glasgow è stata la prima COP dell’era pandemica, due anni dopo a Dubai la COP del primo Stocktake, e infine Baku è riuscita abbastanza rocambolescamente ad essere la COP del nuovo obiettivo finanziario globale e del completamento dell’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi. Quattro COP, passando dalla convulsa conferenza egiziana di Sharm el-Sheikh del 2022 che ha dato vita al Fondo per Perdite e Danni, accomunate da due fili rossi: la questione finanziaria reclamata a gran voce dalle delegazioni del Global South da Glasgow in poi e la necessità di completare “pezzi” dell’Accordo di Parigi, oppure di testare per la prima volta alcune sue componenti (il primo stocktake, appunto, poi il nuovo obiettivo finanziario pluriennale).
Nel mezzo, la pandemia, la crisi economica, sociale, sanitaria ed energetica globale, il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, la ritirata militare francese dall’Africa occidentale e il nuovo ruolo geopolitico dell’asse sino-russo e dei BRICS allargati, conflitti armati su vasta scala in Europa, nel Caucaso, in Africa, ora il macro-conflitto mediorientale che dalla pulizia etnica in corso in Palestina si irradia fino a Beirut, Teheran, allo Yemen, al Qatar. E intanto, il primo superamento certificato della soglia limite dei +1,5°C rispetto al periodo preindustriale nel 2024, indice di una possibile anticipazione temporale del cosiddetto overshoot previsto negli scenari IPCC, che ci avvicinano pericolosamente all’impercorribilità degli obiettivi minimi dell’Accordo di Parigi in assenza di fortissime, velocissime, necessarie politiche di taglio – drastico – delle emissioni globali.
È evidente, senza giri di parole, che se questa COP vorrà avere un senso, dovrà averlo sia rispetto ai trattati che ne legittimano lo svolgimento, sia rispetto al più ampio contesto globale. E rispetto al contesto, la COP dovrà dimostrare per l’ennesima volta che il multilateralismo è utile al mondo, in controtendenza rispetto alla graduale erosione di ogni residuo spazio di gestione diplomatica dei conflitti. Tutti i Paesi riuniti attorno a uno stesso tavolo tematico nonostante tutto, per discutere di cambiamenti climatici in modo più o meno operativo sulla base della Convenzione del 1992, dell’Accordo di Parigi e, almeno vorremmo così, di quanto deciso a Dubai nel 2023 – quel transitioning away, la “transizione in uscita” dalle fonti fossili da avviare entro questo decennio che sembra scivolare sempre più lontano dalla realtà delle cose, nonostante il presunto picco emissivo cinese e l’incredibile e continua crescita globale della capacità rinnovabile.
Per questo servirà una cover decision, ossia una decisione politica finale della COP riassunta in un testo-ombrello da negoziare durante le due settimane, a valle di tutti i tavoli negoziali specifici, pratica in uso fino al 2023. Se le cover decision possono aver rappresentato per alcuni anni quasi un vezzo politico di alcune presidenze, esse hanno in realtà assolto anche un ruolo di governance a tratti creativo e strumentale alla causa riempiendo dei vuoti procedurali, per esempio quando la presidenza emiratina di COP28 decise che il primo Global Stocktake sarebbe stato discusso e votato, appunto, sotto forma di una parte della cover decision generale di quella COP.
A Belém servirà una decisione di questo tipo, una votazione su una dichiarazione politica unica e congiunta dell’intera COP, per dimostrare che nonostante missili e fratture relazionali si è ancora capaci di discutere collettivamente di alcuni obiettivi politici minimi. Ed è un bene, in questo scenario internazionale, che a impugnare il martelletto sia un Paese non occidentale. Urge infatti un caveat: se sarà, la cover decision di COP30 sarà necessariamente un testo ideato, scritto e presentato da cancellerie non occidentali, più probabilmente sotto egida BRICS, cui al massimo l’Europa e gli alleati occidentali potranno proporre emendamenti da negoziare. È la nuova realtà, semplicemente, nonché l’unica strada per raggiungere il consenso in sala, visto il contesto e numeri alla mano. Dovremo abituarci.
La missione storica di guardare oltre Parigi
Dicevamo, del senso di Belém rispetto ai trattati. Qui la COP30 dovrà fare un salto di qualità proprio perché, come detto in precedenza, ormai non ci sono più “pezzi” dell’Accordo di Parigi da completare o testare nella realtà, il processo è avviato e nonostante tutto fin qui la macchina ha retto la strada. COP30 sarà la prima COP a trovarsi di fronte al dilemma vero dell’implementazione, della concretizzazione degli obiettivi della Convenzione e dell’Accordo, pur in uno scenario fatto desolante dal ritardo dei piani clima della maggior parte delle economie globali, in primis e tristemente dell’Unione Europea. Ma serve guardare oltre.
Lo scenario internazionale non potrebbe essere più complesso, eppure serve un salto di qualità nell’immaginare come la comunità internazionale vorrà governare questo enorme “problema lungo”, per dirla con il Prof. Thomas Hale dell’Università di Oxford, che parla appunto di Long Problems nel suo ultimo, illuminante e omonimo libro sulla governance del clima. Se la globalizzazione ci ha abituati a un allargamento orizzontale, geografico, della politica che da nazionale è divenuta necessariamente internazionale, il problema dei cambiamenti climatici ci pone di fronte alla necessità di allungare le politiche in avanti nel tempo, esercizio collettivo mai tentato nella storia umana. Lo vediamo nell’Accordo di Parigi, innovativo nel suo approccio collettivo e bottom-up ma soprattutto nella sua proiezione temporale: un trattato che disciplina il comportamento collettivo degli Stati dal 2020 al 2100.
Ma potrà l’Accordo di Parigi sopravvivere a sé stesso nei prossimi anni? Sarà sufficiente? Credo di no – e lo dico volendo aggiungere e non sottrarre. È ormai evidente che governi e investitori vivono questo periodo politico burrascoso e conflittuale come in un’atmosfera di attesa, uno sperare nel placarsi della tempesta. Questo ci porta a una inazione climatica più lunga e frustrante del previsto e, forse, a quella che sarà una necessità urgentissima e frettolosa di una decarbonizzazione verticale negli anni tra il 2040 e il 2050 di questo secolo, per raggiungere emissioni globali nette zero attraverso un discreto overshoot di temperatura. Per allora le forze del mercato e la ricerca e sviluppo potrebbero averci fornito tecnologie verdi a bassissimo costo, vediamo già oggi nascenti i segni di questa traiettoria. Ma ci mancherà un quadro politico di riferimento, un obiettivo globale. Parigi da solo non basterà.
Ecco allora che COP30 potrà davvero avere un senso se in quelle sale qualcuno comincerà a chiedersi, tra delegati, Ministri, possibilmente in momenti pubblici: cosa verrà dopo Parigi? Di che tipo di obiettivi avremo bisogno, nei prossimi anni? A quale aspirazione collettiva potremo agganciare questo processo, per non trasformarlo in un rituale vuoto? I tempi della costruzione di una decisione politica multilaterale possono essere molto lunghi, tantopiù in un contesto caratterizzato da violenza armata e dialogo polarizzato. Ma qualcuno deve cominciare a lanciare questa provocazione:
abbiamo collettivamente il coraggio di cominciare a pensare al prossimo Accordo, al prossimo Protocollo, possibilmente da adottare tra 2030 e 2035 (passata la tempesta) per regolare la trasformazione finale delle nostre emissioni tra il 2040 e il 2050, verso lo zero?
Irrealistico aspettarsi qualcosa di simile nei testi formali di questa COP, ma è una conversazione che i principali attori dovranno cominciare ad avere, proattivamente. Se a COP30 qualcuno, in particolare qualche Paese, solleverà il tema, allora potremo dire che la COP avrà avuto un senso “lungo”, utile, necessario, oltre alle decisioni di breve-medio periodo adottate nei singoli tavoli negoziali. Questa forse sarà la missione storica di Belém, andare oltre Parigi ripartendo proprio dal Brasile, dove tutto iniziò nel 1992.
Articolo a cura di Jacopo Bencini, Presidente di Italian Climate Network
Immagine di copertina: Rafa Neddermeyer/COP30 Brasil Amazônia/PR.
