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Apr

DALLA CURA PRIVATA A QUELLA AMBIENTALE. LEZIONI DAL SUD AMERICA PER UN APPROCCIO “POPULISTA” E DECOLONIZZATO

Per la rubrica Il Caleidoscopio, questo mese affrontiamo l’evoluzione del concetto di cura, liberandolo dalla dimensione privata, domestica e schiavizzante che gli è sempre stata riservata, per esplorare nuove concezioni tratte dal contesto Sudamericano, grazie alla filosofa militante Sudamericana Luciana Cadahia e al suo “Per un femminismo populista – verso l’immaginazione politica del futuro”.
Le sue riflessioni smontano vincolanti associazioni di pensiero che, soprattutto se inconsce ed ereditate, impediscono l’esplorazione di nuovi approcci alla lotta ai cambiamenti climatici che potrebbero rivelarsi vincenti. Le riflessioni ripercorreranno anche le teorie esposte da Nancy Fraser, Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya in “Femminismo per il 99% – Un manifesto”.

“Chi dice donna, dice… cura”. Nella gran parte del mondo funziona così. Uno dei pochi casi in cui sparisce il divario di pensiero tra occidente e oriente, tra Sud Globale e Paesi sviluppati. A qualsiasi latitudine ci si trovi, il concetto di cura, largamente inteso, trova spazio in quello di femminile, vi ci entra completamente, ne diventa un sottoinsieme a cui è sempre doveroso appartenere. Del rapporto interdipendente tra le donne e la nozione di cura anche ambientale e la sua rilevanza per politiche climatiche efficaci, giuste e inclusive, abbiamo approfonditamente parlato in questo articolo, ispirato al pensiero espresso da Catherine Rottenberg in “L’ascesa del femminismo neoliberista”, e alle proposte femministe di Nancy Fraser, Cinzia Arruzza, Tithi Bhattachrya nel “Femminismo per il 99% – Un manifesto”. 

Con Luciana Cadahia e il suo “Per un femminismo populista – verso l’immaginazione politica del futuro”, proviamo a fare un passo avanti nelle nostre riflessioni climatiche per capire come la nozione di cura possa avere applicazioni ulteriori e ben più trasformative.

Luciana Cadahia, come prima di lei Nancy Fraser, Cinzia Arruzza e Tithi Bhattachrya, parte dalla denuncia di come in Occidente l’attivismo per la giustizia sociale di genere venga per lo più esercitato ‘in silos’, disperdendo energie e frammentando il panorama di protesta. Questo vale anche nel contesto della giustizia climatica. Un esempio di questa dispersione si riscontra nell’incapacità dei gruppi della società civile di occuparsi contestualmente e in modo intersezionale delle sfide sociali dei cambiamenti climatici, dedicandosi per lo più a una lotta singola alla volta (sia essa solo di genere o solo ambientale). Un altro esempio è dato dalla migrazione indotta dai cambiamenti climatici, laddove le ONG operanti nel settore della migrazione non hanno una specifica expertise sul clima, così come le ONG ambientaliste mancano spesso di competenza nel settore delle migrazioni.

Tuttavia, come abbiamo più volte evidenziato, queste lotte sono interconnesse. Di fatto, che siano di genere, climatici o sociali, tutti i diritti sono oggi più che mai fortemente in pericolo e, quando suona l’allarme, le forze si devono unire. In questo contesto, Cadahia – traendo ispirazione dal proprio contesto di provenienza, il Sud America – si domanda se una nuova interpretazione del concetto di ‘cura’ possa venire in aiuto per superare questo approccio al fine di compattare sotto un unico ombrello gli sforzi per il clima e quelli per la giustizia sociale.

Chi Cura: chi e come

Perché, tra le differenti proiezioni sull’idea del curare, abbiamo fatto prevalere quella che presuppone un vincolo di dipendenza? Curare è solo aiutare e fare qualcosa per gli altri o c’è anche uno spiraglio per pensare questa azione con gli altri? (….) Perché, se vogliamo fare del problema della cura uno dei punti di riferimento della trasformazione sociale, avremo bisogno di molta immaginazione collettiva e filosofica che ci orienti nell’azione e che trasformi il lessico della cura nel luogo in cui si codifica un nuovo senso dell’azione umana. (….) Credo che lì, in quella differenza tra fare qualcosa per un altro e fare qualcosa con gli altri, si giochi la possibilità di una rivendicazione repubblicana della cura.

“Repubblica e cura” è il titolo del paragrafo in cui Cadahia regala la leva per una rivoluzione del concetto di cura anche ambientale. Con” e non più “per”. Non è l’uomo che salva l’ambiente, restandone padrone, o la donna che salva l’ambiente sacrificando sé stessa, ma è l’essere umano che si impegna a salvare l’ambiente, come parte di esso.

 Luciana Cadahia, Per un femminismo populista – Verso l’immaginazione politica del futuro (2023) curato e tradotto da Elena Albanese e Alessandro Volpi, con prefazione di Chantal Mouffe, 111.


Nell’investigare una possibile alternativa a questo approccio ‘in silos’ prodotto dal neoliberismo, Cadahia propone di ripartire proprio dalla nozione di ‘cura’.  Tradizionalmente l’idea di ‘cura’ è stata tradotta come un ‘fare qualcosa per gli altri’, una definizione che tuttavia rischia di riprodurre  vincoli di subordinazione e assistenzialismo  tra chi cura (di solito la donna) e chi viene curato, o curata. Cadahia sostiene che una nozione trasformativa possa essere invece quella di ‘cura’ intesa come ‘fare qualcosa con gli altri’. ‘Con’, e non più ‘per’: questa la chiave di volta che può spianare la strada per un nuovo senso dell’azione umana, cioè una pratica condivisa che si costruisce nella relazione e nella lotta comune contro le ingiustizie sociali e quindi anche dell’azione nel contesto della crisi climatica.
Tuttavia, per operare questo salto, alcuni passaggi fuori dagli schemi sono obbligati. 

Il primo passo è quello verso l’antagonismo. Il concetto di cura è infatti legato al ruolo degli affetti (della sensibilità), che tuttavia nella interpretazione occidentale sono da sempre relegati alla sola sfera del privato (e quindi del femminile) in contrapposizione con la razionalità del pensiero che domina la gestione della sfera pubblica (di spettanza maschile). Se vogliamo prenderci cura dell’ambiente ‘con gli altri’, secondo Cadahia è necessario abbracciare questo conflitto tra affetti e razionalità. Questo consentirebbe non solo di valorizzare gli affetti e il ruolo che essi giocano nel guidare e ispirare l’azione della presa in cura, ma anche di portare l’idea di cura nel contesto pubblico (fuori dal privato) per assegnarle quella dimensione collettiva che si traduce nella cura dell’ambiente ‘con gli altri’.

Conflitto

Esplorando il ruolo degli affetti e della presa in cura, all’interno dei contesti politici occidentali, Cadahia sottolinea esplicitamente quanto entrambi i concetti siano associati “a uno stadio di irrazionalità considerato un eccesso pericoloso che dovrebbe essere evitato in ogni pratica democratica”. Un richiamo all’emotività che, se mostrata da una donna, viene spesso criticata e sfruttata come elemento per mostrare incapacità di ragionamento o di pratica del potere. Una ricchezza rappresentata spesso come un difetto, una fonte di potenziali incertezze, un segnale di debolezza che renderebbe il genere femminile meno affidabile e meno razionale.
Cadahia sottolinea infatti che “le scienze politiche spesso disprezzano gli affetti, trasformandoli nel rovescio inconfessato di una pratica escludente dal campo della politica”, definendo “pratica obsoleta” il “continuare a considerare affetti e razionalità in una relazione antagonistica”.
Dalla critica ricava una spinta all’azione e ce la regala attraverso una domanda: “cosa succederebbe se, invece di assumere che gli affetti operano come una deformazione della politica, ci soffermassimo a riflettere sul meccanismo che crea la scissione tra affetti e politica?”. Possiamo qui iniziare a farlo con le politiche ambientali, decisamente bisognose di affetto, come guida e spinta. 

Luciana Cadahia, Per un femminismo populista – Verso l’immaginazione politica del futuro (2023) curato e tradotto da Elena Albanese e Alessandro Volpi, con prefazione di Chantal Mouffe, pagine 57-58.


Il secondo passo è quello di rivedere il concetto  di populismo. Ciascuno ne dà una sua propria definizione, a seconda di quella miscela di background, culture, percorsi e valori in cui è stato a bagno finora. Nella maggior parte dei casi il modo in cui intendiamo il populismo è frutto di paradigmi assorbiti anche inconsapevolmente che ci spingono a pensarlo come qualcosa di negativo, contrario ai principi di cura. 

Tuttavia, la variopinta e variegata storia sudamericana anche recente può aiutarci a scardinare anche questa impulsiva associazione di idee che tanto libera non è.  In particolare, Cadahia si domanda: se al centro del populismo ci fosse proprio la cura di chi è popolo, ultimi e marginalizzati compresi, questo quali implicazioni avrebbe?

“La cura, intesa come pratica collettiva e conflittuale, diventa il terreno su cui si costruisce un nuovo popolo capace di resistere e trasformare le condizioni di vita, rompendo con la logica individualista e competitiva del neoliberismo”.

Populismo

Per Cadahia, il populismo latinoamericano è una pratica politica radicata nella mobilitazione sociale, nella costruzione collettiva di un “popolo” e nella capacità di affrontare le sfide poste dalle ingiustizie sociali e dal neoliberismo. Cadahia sottolinea che il populismo sudamericano non si fonda su un’identità esclusiva o predefinita, ma sulla articolazione delle differenze: il “popolo” viene costruito includendo soggettività eterogenee (genere, razza, classe), senza annullare la loro diversità, ma anzi valorizzandola come forza di emancipazione. Inoltre, a differenza delle versioni europee, si fonda proprio sulla capacità di costruire un “popolo” attraverso legami affettivi, solidarietà e pratiche di cura collettiva. 

Secondo Loris Zanatta, professore di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, “Il populismo latinoamericano proclama il principio dell’unanimità.
È inclusivo, ma può diventare totalitario in nome del popolo. Può avere una base popolare e attuare politiche di distribuzione sociale, ma la sua caratteristica principale è l’ambizione di trasformare il suo popolo in un popolo intero. Mosso da impulso unanimista, il populismo latino gioca così, in nome del popolo trasformato in tutto il popolo (al di là della base sociale), tutti i ruoli che nei sistemi pluralistici interpretano attori diversi. Il popolo è inteso come una comunità organica, un corpo naturale indipendente dal patto politico sancito dalla Costituzione.
Così non è nel populismo occidentale. Ad esempio, dice Zanatta, negli Stati Uniti, dove anche qualora ci fosse una volontà emancipatrice di stravolgere l’ordine politico e istituzionale del Paese è probabile che la fitta rete istituzionale, politica e civile statunitense iscritta nella tradizione costituzionale Pel paese ne assorbirebbe come in passato la carica eversiva”.

Loris Zanatta, Populismi di sinistra? Il caso dell’America Latina in Teoria Politica, Annali VII, 7 (2017).


Agganciare l’idea di populismo al  concetto di cura aiuta dunque ad interpretarlo in chiave positiva – come elemento di unione dei movimenti per la giustizia intesa in senso lato, aggregando soggettività diverse attorno a una cura che diventi intesa ‘con’ gli altri degli altri, niente e nessuno escluso, quindi ambiente compreso.

La cura, quindi, non è solo un valore morale, ma uno strumento politico che trasforma le relazioni sociali e permette di immaginare nuove forme di convivenza e di lotta. Questo approccio si oppone al neoliberismo, che individualizza e mercifica la cura (ne avevamo parlato qui) proponendo invece una cura capace di generare nuovi legami sociali e nuove forme di soggettività politica. 

Per fare questo, Cadahia invita alla contaminazione positiva da parte di altre realtà. Invita alla decolonizzazione e presenta il Sud America come il laboratorio da cui trarre ispirazione.

Contaminazione 

Dove ci può portare la scelta di aprire la porta a modi nuovi (nuovi per noi) di essere ambientalisti, e più semplici di essere sul Pianeta? Modi lontani e oltre a quel dualismo tra uomo e natura che un antropologo come Eduardo Kohn nel suo “Come pensano le foreste” definisce “non solo un prodotto socio culturale di un tempo o di un luogo specifico ma un pensiero radicato in ciò che significa essere umani”. Superare tale ‘lateralità’, spiega quindi Kohn, “richiede una vera impresa, quella di de-familiarizzare l’umano, e la scelta di intraprendere un arduo processo di decolonizzazione del nostro pensiero”.
Ci invita a “provincializzarci” allargando lo sguardo al mondo non occidentale, sia nel femminismo che nell’ambientalismo. Serve un nuovo linguaggio per fare spazio a un altro genere di pensiero, più vasto, che abbracci e sostenga l’umano. Il pensiero delle foreste, per esempio, che secondo Kohn, “pensa attraverso le vite di chi come i Runa (e altri), interagisce intimamente con gli esseri viventi della foresta in modalità che amplificano le logiche distintive della vita”.


Abbiamo più volte sottolineato la necessità di decolonizzare il nostro pensiero occidentale nella lotta ai cambiamenti climatici, per volgere lo sguardo ad altri mondi e accogliere approcci altrui dell’abitare il pianeta. 

Abbiamo anche sottolineato che le popolazioni indigene, le meno ascoltate ai tavoli delle COP, sono fonti preziose. Queste comunità vivono  in stretta connessione con la natura e hanno sviluppato pratiche e abitudini che scardinano la tradizionale visione occidentale del rapporto uomo-natura per abbracciare una visione ecologica. Il rispetto per l’ambiente e i suoi equilibri, la consapevolezza che questi richiedano cura e affetto, ha indotto nel tempo alcune popolazioni del Sud Globale a chiedere il riconoscimento dei diritti della natura e dei suoi elementidiritti della natura  al fine di vederli protetti da logiche di sfruttamento incompatibili con la sostenibilità ambientale. Il primo Paese a riconoscerla è stato l’Ecuador nel 2008, seguito a stretto giro da altri Stati come Bolivia, Panama, Colombia e Perù, ma anche India e Bangladesh, per esempio.

È sempre grazie alle popolazioni indigene che nasce il diritto umano a un ambiente salubre e pulito prima ancora che Rachel Carson, con il noto ‘Silent Spring’, portasse all’attenzione dell’occidente la necessità di abbracciare una visione ecologica del mondo. Così, Stati come Costa Rica, Maldive, Marocco, assieme a Slovenia e Svizzera, hanno chiesto l’adozione della risoluzione 76/300 per il riconoscimento di questo diritto a livello delle Nazioni Unite che ha visto la luce nel 2022 (ne avevamo parlato qui). 

In Europa si sta ancora discutendo sull’opportunità di riconoscere questo diritto, e nel caso in che forma: se come convezione a sé stante o come protocollo aggiuntivo alla CEDU, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Purtroppo, in Europa vige ancora una visione antropocentrica, dove l’uomo è al centro di tutto, per cui il riconoscimento legale di un diritto che sposta il focus di attenzione a qualcosa che sembianze umane non ha è ancora complesso da accettare. Sembra strano: sembra “un concetto indigeno”, appunto. La soluzione è dunque farsi contaminare, abbracciando nuove nozioni di cura come quella proposta da Cadahia (antagonista, populista ed ecologista) per fare il salto di paradigma che ci serve ad affrontare la sfida climatica, per curarci con gli altri senza lasciare indietro nessuno, con un approccio collettivo e che tiene conto anche della salute dell’ambiente, con affetto e sensibilità.

Status di persona giuridica alla natura 

Ecosistemi ed entità naturali oggi possono vedersi riconosciuto lo status di soggetti di diritto, ovvero essere rappresentati legalmente per la propria tutela. Quindi? Quindi possono essere difesi meglio e più concretamente da piccole o grandi minacce, anche in tribunale, con azioni legali direttamente a suo nome che obbligano i tribunali a considerare esplicitamente i diritti degli ecosistemi nelle decisioni di sviluppo economico.

Questo cambio di paradigma è fondamentale, ma non ancora abbastanza diffuso. È un segno di riconoscimento dell’interconnessione tra il benessere umano e quello della natura, è la scelta di abbracciare una visione olistica e rigenerativa e di ridefinire il rapporto che ad essa ci lega. Non tutti accettano di fare questo passo ufficialmente, legalmente, nonostante i proclami. 

Ancora una volta, il primo segnale concreto è arrivato dal Sud Globale, dall’Ecuador che ha deciso di concedere alla natura, o Pachamama, il diritto al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, delle sue strutture, delle sue funzioni e dei suoi processi evolutivi”. A seguire, i diritti della natura sono riconosciuti in varie forme in una quarantina di Paesi. Scorrendo anno dopo anno i casi collezionati dalla Global Alliance for the Rights of Nature si trova anche un esempio europeo, risalente al 2022, grazie alla Spagna che ha riconosciuto la personalità giuridica al Mar Menor, la più grande laguna salina mediterranea d’Europa. 


Fonte: GARN, Rights of Nature

Questo articolo fa parte de Il Caleidoscopio, la rubrica di approfondimenti che punta a chiarire teorie e riflessioni sviluppate dal movimento femminista, calandole nel contesto delle tematiche legate al clima per capire meglio le richieste e i concetti di azione climatica e giustizia climatica. Come il caleidoscopio restituisce immagini plurime sempre diverse, le nostre riflessioni femministe vogliono restituire un’immagine pluriversale del mondo e fornire strumenti utili a renderlo più equo, inclusivo, giusto e sostenibile.
Direzione e Coordinamento di Erika Moranduzzo, Coordinatrice della Sezione Clima e Diritti e componente del Consiglio Direttivo di Italian Climate Network.

Fonti:

  • Per un femminismo populista – Verso l’immaginazione politica del futuro di Luciana Cadahia
  • Femminismo per il 99% – Un manifesto. Nancy Fraser, Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya

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