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Ott

FINANZA CLIMATICA, CHI PAGHERÀ? IL PUNTO VERSO COP29

La finanza climatica si preannuncia tra i temi più caldi di COP29, la prossima Conferenza ONU sul clima che si aprirà lunedì 11 novembre a Baku, in Azerbaijan: in agenda c’è infatti l’adozione di un nuovo obiettivo finanziario volto a superare il precedente di 100 miliardi di dollari all’anno.
Sembra probabile che si arrivi a promettere cifre intorno ai mille miliardi di dollari l’anno per supportare le crescenti necessità dei Paesi in via di sviluppo, che tuttavia secondo le stime avrebbero bisogno di almeno 5.8 mila miliardi tra ora e il 2030. Sorge quindi spontanea la domanda: chi pagherà? E come?

La finanza climatica, per la quale non esiste una definizione univoca, può essere considerata entro quattro diverse estensioni:

  • a livello globale, 
  • dalle nazioni più ricche ai cosiddetti Paesi in via di sviluppo,
  • tramite la cooperazione Sud-Sud, cioè tra Paesi in via di sviluppo,
  • a livello domestico.

L’estensione globale della finanza climatica è la più ampia: include tutte le risorse che vengono mobilitate da tutti i Paesi, sia internamente che esternamente.
Il nuovo obiettivo che verrà discusso ai negoziati di Baku (New Quantified Collective Goal o NCQG), invece,  considera all’interno della finanza climatica solamente i flussi dai Paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo, sulla base dell’articolo 9 dell’Accordo di Parigi. In vista della definizione del nuovo obiettivo, però, c’è chi mette in discussione questa visione e tenta di includere nuovi potenziali contribuenti. La scappatoia sembra fornita dall’Accordo di Parigi stesso, che all’articolo 2.1(c) invita tutti i Paesi a rendere il flusso finanziario consistente con uno sviluppo sostenibile e a basse emissioni di gas climalteranti, senza specificare in quella sede chi debba mobilitare risorse per chi.
È proprio sulla base di questo articolo che i Paesi sviluppati strutturano la proposta di riconoscere la responsabilità di tutte le Parti all’interno del nuovo obiettivo finanziario, includendo quindi anche i Paesi in via di sviluppo e in particolare quelli con maggiori livelli emissivi. Dall’altro lato, questi ultimi sottolineano come l’NCQG si basi solamente sull’Articolo 9, mentre discussioni basate sull’Articolo 2.1 rappresenterebbero un filone separato. Le discrepanze nelle diverse visioni lasciano spazio a ulteriori negoziazioni.
Ma esiste effettivamente la necessità di allargare la base dei contribuenti al nuovo NCQG? Perché i Paesi sviluppati chiedono che i Paesi in via di sviluppo si assumano maggiori responsabilità?

Come sono stati suddivisi i Paesi ricchi e quelli considerati in via di sviluppo?

La suddivisione tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo è stata introdotta dall’Accordo di Parigi, che ha ripreso la visione del mondo su cui era stata costituita la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) nel 1992.

A quel tempo i Paesi erano stati rigidamente suddivisi in due categorie: industrializzati o con economie di transizione, inclusi nell’Allegato 1 (Annex 1), e non industrializzati, non inclusi nell’Allegato 1 (non-Annex 1).
43 Paesi sono entrati così a far parte dell’Allegato 1, o perché facenti parte dell’Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD) – come Francia, Germania, Stati Uniti e Italia -, o perché considerati come economie in transizione, come Federazione Russa, Paesi balcanici e Paesi dell’Europa centrale e orientale. 
Gli altri Paesi, circa 150 in tutto, sono stati categorizzati come in via di sviluppo

Far parte dell’una o dell’altra categoria comporta obblighi differenti, in base al principio delle “responsabilità comuni ma differenziate” e delle capacità relative (CBDR-RC), pilastro della Convenzione che sancisce che i Paesi hanno una diversa responsabilità storica nella crisi climatica e differenti capacità (finanziarie, tecnologiche) di affrontarla. 

Per questo si stabilì che i Paesi industrializzati o con economie di transizione (Allegato 1) avrebbero dovuto impegnarsi a prendere il comando (should take the lead, in inglese) nel ridurre le emissioni climalteranti. A quelli più ricchi tra loro (identificati come Allegato 2, che include anche l’Italia) sono stati attribuiti anche ulteriori obblighi nel fornire risorse finanziarie ai Paesi in via di sviluppo (non-Allegato 1).

Lista dei Paesi Allegato 1 e 2 (in verde), Allegato 1 (in blu), non Allegato 1 (in giallo) – Wikipedia

Oggi, la situazione globale è molto diversa da quella di trent’anni fa

Le categorie Allegato 1 e non-Allegato 1, in cui sono stati suddivisi i Paesi, sono ampie e includono realtà spesso eterogenee in termini di emissioni cumulate e capacità finanziarie. Tra i Paesi sviluppati sono presenti, ad esempio, sia gli Stati Uniti – il Paese con più emissioni cumulate della storia (24%) nonché la prima economia del mondo (circa 82.000 dollari di PIL pro capite) – si la Turchia, che rappresenta lo 0.66% delle emissioni storiche di CO2 e un PIL pro capite di circa 13.000 dollari. 
Allo stesso modo, tra i Paesi in via di sviluppo troviamo il più grande emettitore al 2022 nonché la seconda economia del mondo, la Cina, insieme ai Paesi più vulnerabili alla crisi climatica. 

Immaginando di rifare oggi la stessa suddivisione tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo, le Parti sarebbero dunque classificate in maniera molto differente: 25 tra i Paesi che a oggi raffigurano come in via di sviluppo sarebbero probabilmente considerati sviluppati, avendo responsabilità climatica (in termini di emissioni pro capite) e capacità finanziaria (in termini di Reddito Nazionale Lordo pro capite o RNL) maggiore di quelle di almeno tre Paesi dell’Allegato 2 nel 1990. 

Rientrerebbero per la prima volta tra i Paesi sviluppati i produttori di petrolio (tra cui Kuwait, Qatar, Arabia Saudita), i Paesi che sono parte dell’OECD da dopo il 1992 (tra cui Israele e Corea del Sud), i Paesi dell’Europa dell’est (come Estonia, Slovacchia, Slovenia) e i paradisi fiscali (tra cui Panama, Seychelles, Cipro). È curioso notare che, nonostante venga spesso additata in fase negoziale, la Cina non sarebbe ancora considerata un Paese sviluppato, perché non supera il limite per le emissioni cumulate per persona. 

Partendo da queste considerazioni, Europa e Stati Uniti sostengono che il nuovo obiettivo di finanza climatica possa essere raggiunto solamente se le Parti con elevate emissioni di gas climalteranti e le capacità economiche parteciperanno allo sforzo.
Svizzera e Canada si spingono oltre, e propongono indici quantitativi con cui identificare i nuovi contribuenti. Secondo la Svizzera devono essere inclusi i 10 maggiori emettitori con un reddito nazionale lordo al di sopra dei 22 mila dollari pro capite oltre che tutti i Paesi con emissioni cumulate pro capite maggiori di 250 tonnellate di CO2 e un RNL di più di 40.000 dollari pro capite. Per il Canada, i maggiori emettitori dovrebbero essere inclusi già con un RNL pro capite di 20.000 dollari e bisognerebbe includere anche tutti i Paesi con RNL maggiore di 52.000 dollari pro capite, indipendentemente dalle loro emissioni. 

I maggiori emettitori targetizzati dalle proposte di Canada e Svizzera – sulla base di dati di World Bank e Climate Watch.

Da parte loro, i Paesi in via di sviluppo si oppongono all’idea di allargare la base dei contribuenti liquidando la questione come già definita in precedenza e percependo la proposta come un tentativo da parte dei Paesi sviluppati di venire meno ai propri obblighi e limitare la propria ambizione (ne abbiamo parlato anche qui). 
Ciò è comprensibile, considerando che vari studi dimostrano che per i Paesi Allegato 2 è possibile raggiungere l’obiettivo finanziario e addirittura superarlo, arrivando a mobilitare fino a 5.3 mila miliardi di dollari.

Le questioni più rilevanti per i Paesi in via di sviluppo non riguardano quindi la domanda del “chi?” ma quelle del “quanto?” e del “come?”.
La scelta delle tematiche non è casuale, ma richiama alcune delle principali cause di sfiducia emerse nell’attuazione del precedente obiettivo di finanza climatica: da un lato il mancato raggiungimento dell’obiettivo fino al 2022, e quindi con almeno due anni di ritardo, dall’altro la grande percentuale di prestiti a mercato elargiti. 

Come devono essere elargiti i contributi?

Affinché si riescano a mobilitare nei tempi prestabiliti le risorse identificate nel nuovo NCQG, è importante approfondire alcuni meccanismi, lezioni apprese dall’obiettivo precedente. Per farlo è innanzitutto necessario valutare la finanza elargita non solo in termini assoluti, ma anche in riferimento alla responsabilità storica e alla capacità dei singoli Paesi.
In questo modo emerge che gli Stati Uniti, il maggiore contribuente del 2022, in realtà non hanno elargito neanche un terzo di quanto avrebbero teoricamente dovuto, e potuto. Sotto la soglia, tra gli altri, anche Italia, Canada e Gran Bretagna.
10 Paesi Allegato 2 hanno contribuito in modo coerente, due anche più di quanto avrebbero dovuto (Norvegia e Francia).

L’assenza di un meccanismo di definizione dei contributi necessari dai Paesi limita la responsabilità dei singoli, e rischia di ridurre l’ambizione. Non è però solo questione di quantità, ma anche di qualità. Lo strumento più diffuso per elargire la finanza climatica nel 2022 è stato quello dei prestiti, in larga parte non-concessionali; tra la finanza pubblica, essi hanno rappresentato il 69%, mentre solo il 28% è stato sotto forma di concessioni. Considerando i grant-equivalent, cioè la differenza tra il prestito e i rimborsi ottenuti nel corso della sua durata, dei 115.9 miliardi di dollari mobilitati dai Paesi sviluppati si ottengono solamente 35 miliardi di dollari. 

Oltre a ciò, diversi accordi per prestiti e concessioni hanno contenuto clausole per appaltare incarichi per le aziende o comprare i materiali dalle compagnie del Paese donatore, contribuendo quindi ad aumentare i profitti nei Paesi sviluppati. Da qui nascono le richieste di molti Paesi di introdurre sistemi di definizione dei contributi e quantificare il nuovo NCQG in termini di grant-equivalent. 

Nel tentativo di definire il prossimo obiettivo di finanza climatica, dunque, alla COP29 di Baku si scontreranno visioni diametralmente opposte. Quale sarà il compromesso che ne verrà fuori? Come sempre una delegazione di Italian Climate Network seguirà i lavori: potete iscrivervi gratuitamente a questo link per ricevere il bollettino.

Articolo a cura di Claudia Concaro, volontaria di Italian Climate Network.

Immagine di copertina: attivista in azione ai negoziati intermedi di Bonn del 2024. Foto UNFCCC

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