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MOBILITÀ UMANA E CAMBIAMENTO CLIMATICO: UNA RIFLESSIONE SULL’URGENZA DI UNA CONVERGENZA DI PENSIERO E GIUSTIZIA

Il legame tra migrazione e fattori ambientali non è mai separato da altri aspetti quali povertà, diritti negati e conflitti. Il nesso tra ambiente e movimenti forzati resta un tema che necessita di una profonda attenzione e di un meticoloso monitoraggio. La natura complessa delle migrazioni, infatti, non consente sempre di quantificare l’entità degli sfollamenti ambientali, soprattutto con riferimento alle situazioni transfrontaliere.

La Banca Mondiale prevede che nel 2050 oltre 85 milioni di persone saranno costrette a fuggire nel contesto di catastrofi naturali e cambiamenti climatici nell’Africa sub-sahariana, 40 milioni in Asia meridionale, 17 milioni in America Latina. Un movimento globale che richiede una risposta solidale di cura. 

Stiamo attraversando una tempesta perfetta: oltre l’effetto serra e la desertificazione, i conflitti protratti in Africa, Medio Oriente, etc., restano irrisolti nell’oblio generale, esacerbando le disuguaglianze e spingendo sempre più persone alla fuga. Secondo il rapporto Global Trend di UNHCR nel 2024 il numero di persone costrette a fuggire a causa di conflitti è di 120 milioni, di cui oltre il 50% sono donne e bambine. Il numero è raddoppiato negli ultimi 10 anni. Davvero la grande menzogna della guerra non smette mai di affascinare l’umanità.

La mobilità legata al clima è una questione sociopolitica e umanitaria, e dovrebbe innescare una riflessione sull’equilibrio, valore di cui raramente ci preoccupiamo. Una cosa è certa: lo squilibrio genera instabilità e conflitto. La posta in gioco è alta: la riflessione etica sulla cura, la cui essenza consiste nel prendere a cuore la vita e l’ambiente, L’OIKOS che abitiamo, ci deve scuotere. Eppure, la politica fatica ad assumere la cura come parte profonda della propria progettualità. Tutto è ridotto a mercato e interessi di potere.

Il caos climatico erode i servizi ecosistemici, colpendo la quotidianità delle persone all’interno del proprio paese, in particolare nella fascia tropicale o arida. Regioni fragili come il Sahel e il Corno d’Africa, il bacino del lago Chad, già sconvolte da guerre e terrorismi. È da questa prospettiva marginale dei diritti disattesi che rifletto. Il riscaldamento globale, combinato con il degrado ambientale, genera l’inasprimento dei conflitti che già faticano a trovare la via della pace. Prima di raggiungere il livello di gravità che costringe le persone a fuggire oltre confine, si generano esodi interni, spesso dalle aree rurali a quelle urbane. Questo fenomeno l’ho personalmente osservato in Niger, Kenya, Afghanistan e Somalia. Ma la stessa casistica si osserva in America Latina e Cina.

Il termine “rifugiato climatico” è spesso utilizzato dai media. Tuttavia, è un’espressione che può ingenerare confusione, dal momento che non ha fondamento nel diritto internazionale. Un “rifugiato” è definito come chiunque abbia varcato frontiere internazionali e non possa fare ritorno nel proprio paese di origine “per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche” (Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati). In determinati contesti, la definizione è estesa a chiunque fugga da “eventi che compromettono gravemente l’ordine pubblico” (Convenzione OUA del 1969; Dichiarazione di Cartagena del 1984). Possono presentarsi perciò situazioni in cui si applica il riconoscimento dello status di rifugiato previsti dalla Convenzione del 1951, per esempio quando carestie correlate a siccità sono legate a situazioni segnate da conflitti armati e violenze – un ambito conosciuto come “dinamiche di nesso”.

L’Agenzia ONU per i rifugiati, UNHCR, si riferisce al “rifugiato climatico” come persona “costretta a fuggire nel contesto di catastrofi naturali e cambiamenti climatici”. Nel 2019 il relatore speciale del ONU sulla povertà estrema, Philip Alston, ha parlato di “apartheid climatico” per indicare il carico di disuguaglianza che il cambiamento climatico porta con sé. Quasi il 75% dei costi del riscaldamento globale sarà pagato dai paesi poveri, nonostante la metà della loro popolazione abbia generato solo il 10% delle emissioni CO2 a livello globale.

Proteggere il clima diventa necessariamente un’azione di cura e di giustizia sociale, perché un mancato raccolto o una foresta che muore non sono solo una sfida economica, ma una perdita di diritti umani, un rischio per la coesione sociale delle tante comunità rurali e, nel lungo termine, di tutti noi. 

Davvero dovremmo essere noi stessi il cambiamento che vogliamo vedere, responsabilizzando le attività umane e dei paesi industrializzati. Investendo senza timore sul lungo termine per costruire resilienza e speranza. Il cammino verso la definizione di un trattato internazionale vincolante sul clima, in grado di scongiurare gli effetti del global warming è ancora lungo ed impegnativo. Urge costruire una democrazia globale basata sui principi di giustizia e sostenibilità. Come ci ricorda l’attivista ambientalista Vandana Shiva, la lotta per la giustizia climatica e la lotta per la giustizia sociale sono due declinazioni della stessa battaglia.

Articolo a cura di Alessandra Morelli, esperta di migrazioni e Delegata per dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)


L’articolo è realizzato per Cinema e Ambiente Avezzano e finanziato dalla società di produzione cinematografica The Factory.

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