clima e questioni di genere
23
Giu

POLITICHE DI GENERE: SPERANZA, RESISTENZE E NUOVE SFIDE 

Chi segue i negoziati sul clima sa bene che da oltre un decennio esiste un percorso specifico dedicato alla dimensione di genere. Questo filone mira ad integrare e promuovere considerazioni sostanziali di genere in tutti gli ambiti di lavoro dei negoziati sul clima. Nato nel 2014 con l’adozione del Lima Work Programme on Gender (LWPG), il progetto si è sviluppato in maniera più strutturata con il Gender Action Plan (GAP) – ne avevamo parlato qui. A COP29, non senza tensioni e critiche, si era giunti alla decisione di rinnovare per altri 10 anni il LWPG, lasciando agli intermedi di Bonn il ‘lavoro sporco’ di gettare le basi per nuovo e più ambizioso GAP. Non si tratta solo di parole sulla carta, ma di costruire un’agenda politica concreta e trasformativa.

I workshop di Bonn: priorità chiare e ambizioni alte

Tra il 16 e il 19 giugno, si sono tenuti a Bonn dei workshop organizzati dallo SBI (Subsidiary Body for Implementation), con una partecipazione attiva delle componenti della Women and Gender Constituency (WGC). Da questi incontri è emerso un quadro chiaro delle priorità che rappresentano le fondamenta per un Gender Action Plan efficace e credibile:

  • Finanziamenti mirati alle realtà femministe locali: le organizzazioni locali guidate da donne, soprattutto nei Paesi del Sud globale, sono spesso escluse dai meccanismi di finanziamento climatico. La richiesta è chiara: fondi dedicati, accessibili e a lungo termine per chi lavora già sul campo con approcci gender-transformative.
  • Responsabilità e misurabilità: gli impegni devono essere verificabili. Si chiede l’introduzione di indicatori concreti, con dati disaggregati per genere, etnia e classe sociale. Senza strumenti di monitoraggio, il rischio è che il GAP resti una scatola vuota.
  • Partecipazione piena e significativa: non basta essere presenti. Le donne – soprattutto indigene, rurali, giovani – devono essere parte integrante dei processi decisionali, con diritto di parola, influenza e voto. Il superamento della ‘partecipazione simbolica’ è cruciale.
  • Formazione e rafforzamento delle capacità: l’educazione alla giustizia climatica deve essere strutturale. Si chiedono programmi di formazione ben finanziati e radicati nei territori, capaci di costruire consapevolezza e leadership locale.
  • Valorizzazione del lavoro di cura: il lavoro di cura, che sostiene le comunità anche durante le crisi climatiche, deve essere riconosciuto nelle strategie di adattamento e mitigazione. È tempo di includere nei modelli economici e ambientali, e non lasciarlo invisibile.

Queste priorità vanno ben oltre l’inclusione formale: puntano a cambiare le regole del gioco, a ridisegnare l’intero sistema climatico attraverso una lente intersezionale, femminista e decoloniale.

Il backlash anti-femminista: una minaccia organizzata

Proprio mentre si costruisce, cresce anche il tentativo di demolire. COP29 ha segnato un campanello d’allarme: Russia, Arabia Saudita, Santa Sede ed Egitto hanno avanzato proposte per eliminare termini come ‘gender’, ‘intersezionalità’ e ‘inclusione’ a favore di un linguaggio binario e conservatore. Non si tratta di casi isolati. 

Uno studio pubblicato nel 2025 ha documentato l’infiltrazione sistematica di gruppi anti-gender e ultraconservatori nei processi multilaterali delle Nazioni Unite. Attivi anche alla Commissione sullo Status delle Donne e al Consiglio per i Diritti Umani, questi attori – spesso legati a fondazioni religiose, think tank reazionari o governi autoritari – adottano strategie subdole, quali l’utilizzo di un linguaggio neutro, temi come ‘difesa della famiglia’ o ‘neutralità valoriale’, con la missione dichiarata di influenzare questi processi a beneficio di visioni più ‘conservatrici’ che indeboliscano gli strumenti internazionali che promuovono i diritti di genere. 

Ad esempio, Russia, Arabia Saudita ed Egitto sono riusciti a far inserire in alcune risoluzioni dello Consiglio per i Diritti Umani riferimenti alla famiglia ‘tradizionale’ o ‘naturale’ che definiscono come una unità etero-normativa e patriarcale formata da una madre, un padre e i figli. Insieme ad altre organizzazioni (anche religiose) conservatrici, il Vaticano ha organizzato una serie di side-event alla Commissione sullo Status delle Donne, dove ha contestato i test prenatali per la sindrome di Down al fine di minare il diritto all’aborto, facendo proprie alcune argomentazioni a favore dei diritti delle persone con disabilità.

Questa offensiva si inserisce in un contesto globale segnato da guerre, crisi democratiche e un ritorno dell’autoritarismo. In questo scenario, il femminismo – soprattutto quello intersezionale – diventa un bersaglio facile. Non sorprende che anche nell’ambito dei negoziati sul clima si tenti di disinnescare strumenti come il Gender Action Plan, accusandoli di ‘ideologia gender’ o ‘radicalismo’. 

La reazione: resistere e rilanciare

Di fronte a questa ondata conservatrice, la risposta della società civile è stata ferma. La Women and Gender Constituency, insieme a centinaia di organizzazioni femministe, indigene e giovanili, ha promosso mobilitazioni, lettere aperte e interventi pubblici. I workshop a Bonn si sono trasformati anche in momenti di solidarietà e strategia politica: si è discusso apertamente di come contrastare l’influenza dei gruppi reazionari, di come garantire trasparenza nei negoziati e proteggere il linguaggio progressista nei documenti ufficiali. L’adozione di un Gender Action Plan forte è più che una questione tecnica: è uno spartiacque politico, tra due visioni opposte di mondo.

E ora?

Il testo negoziale sul nuovo Gender Action Plan è atteso a breve, e le Parti inizieranno a discuterlo in questa settimana di negoziati a Bonn. Secondo quanto emerso oggi dal meeting preparatorio, i co-facilitatori hanno lavorato per garantire che il nuovo GAP centri le priorità e i punti emersi durante i workshop. Ma si parte già con la nota dolente: tra le priorità evidenziate dalla presidenza brasiliana per la COP30 non sono state incluse le considerazioni di genere, un’assenza che allarma  la società civile.

Attendiamo quindi con il fiato sospeso il nuovo testo negoziale con questa domanda: riusciremo ad avere un Gender Action Plan trasformativo, o assisteremo (di nuovo) a un compromesso al ribasso? La posta in gioco è alta: per il futuro del clima, ma anche per la credibilità delle Nazioni Unite come spazio di progresso. Un GAP svuotato manderebbe un messaggio devastante a chi lotta da decenni per l’equità e la giustizia sociale nei processi climatici. 

Se davvero vogliamo una transizione ecologica equa e inclusiva, dobbiamo garantire che le politiche climatiche riconoscano le disuguaglianze strutturali e le affrontino con strumenti concreti. Ma la crescente pressione anti-femminista mostra che il cambiamento non è mai lineare: va difeso, costruito e rivendicato costantemente. I negoziati intermedi di Bonn sono il banco di prova per quello che possiamo attenderci anche a COP30. Non solo per il clima, ma per i diritti in generale. 

Articolo a cura di Erika Moranduzzo, coordinatrice della sezione Clima e Diritti di Italian Climate Network.

Immagine di copertina: foto UN Climate Change / Lucía Vásquez

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