PRENDERE SUL SERIO IL SAPERE INDIGENO
Le popolazioni indigene al mondo contano tra i 300 e i 500 milioni di persone, circa il 5% della popolazione mondiale. L’importanza del loro ruolo è stata per molto tempo sottovalutata o ignorata, ma di recente diversi enti, come le Convenzioni delle Nazioni Unite sul clima e sulla biodiversità, hanno riconosciuto il loro ruolo e hanno iniziato a muoversi per tutelare le popolazioni indigene, sia da un punto di vista finanziario che di diritti. Proprio durante l’ultima COP sulla biodiversità è stato per esempio istituito un Fondo apposito per supportare le loro pratiche e tradizioni nella conservazione della biodiversità.
Importante è quindi capire qual è il ruolo di queste popolazioni e come la comunità scientifica possa integrare anche pratiche e conoscenze “altre”, che sono il risultato di anni di co-evoluzione dell’uomo con la natura.
Popolazioni indigene e biodiversità
I popoli originari o indigeni abitano le zone a maggior biodiversità del mondo. Nelle aree del Pianeta definite megadiverse si concentra la maggior varietà delle forme di vita non umana (biologica), che coesiste storicamente con il più alto grado di variabilità linguistico-culturale.
Claude Lévi-Strauss ha rappresentato una delle voci principali nell’evidenziare l’importanza dell’uomo in rapporto alla natura; secondo l’antropologo francese quest’ultimo si definisce principalmente in relazione con i “non umani” e costruisce conoscenza per analogia osservando il contesto naturale in cui è inserito.
Le popolazioni indigene, grazie alla diversità dei territori in cui abitano, hanno sviluppato nel tempo una relazione “continuista” (non dicotomizzante) tra esseri umani e non-umani fondata sullo scambio reciproco, sulla cura e sulla responsabilità nei confronti delle innumerevoli forme di vita.
Apprendere e riconoscere le conoscenze e la visione delle popolazioni indigene locali potrebbe aiutare, crediamo, a riconciliare la tensione, ancora esistente, tra la diffusa visione occidentale della natura come risorsa da sfruttare e la visione indigena di un mondo in cui gli esseri umani e la natura sono parte di un unico insieme.
Vivendo in empatia con la natura i popoli indigeni ne sono diventati le “sentinelle”: per primi colgono la crisi ambientale ma nello stesso tempo sanno anche trovare soluzioni adeguate. Per questo motivo è indispensabile prestare speciale attenzione alle loro necessità e tradizioni.

La cosiddetta “scienza dei nativi” può fornire dati fondamentali alla ricerca climatica attraverso conoscenze dirette del territorio e documenti storici. Queste comunità, che hanno vissuto a lungo a contatto con la terra (e che dipendono dalla sua profonda conoscenza per sopravvivere) conservano documenti e ricordi che possono includere dettagli straordinari sulle alterazioni dei modelli meteorologici, sui cambiamenti nella vegetazione o sul comportamento insolito degli animali.
La consultazione con la popolazione locale fornisce un quadro più completo e olistico rispetto a quello che si ottiene semplicemente tramite le misurazioni.
Gli ecosistemi si sono co-evolutivamente formati insieme agli esseri non umani, e in larga misura anche insieme agli esseri umani e alle loro pratiche – tanto culturali quanto di raccolta, caccia, di orticultura itinerante. Per millenni le popolazioni umane hanno apportato modificazioni lente agli ecosistemi, ma senza che la biodiversità ne risentisse se non su scale definitivamente inferiori rispetto a quelle odierne.
Diritti bioculturali e giustizia sociale
Il tema delle conoscenze indigene porta con sé problematiche legate alla disuguaglianza, perché queste forme di conoscenza, svilite nel corso della storia, appartengono a popolazioni marginalizzate dai processi storici globali. Queste popolazioni hanno contribuito in modo minore ad alimentare l’emergenza, ma oggi subiscono in modo più massiccio le conseguenze di quella che appare come una grave crisi ecologica. La crisi climatica, quindi, non fa altro che amplificare e rivelare il divario strutturale tra il “noi” e l’“altro”.
I diritti dell’ambiente e diritti dei popoli indigeni vengono chiamati in causa soprattutto quando i loro territori sono minacciati dall’esproprio o dati in concessione dagli Stati nazionali per lo sfruttamento delle risorse. Con l’intento di conciliare diritti umani e diritti dell’ambiente, guardando con attenzione ai popoli indigeni, si è iniziato a parlare di diritti bioculturali.
Tuttavia, in questa narrativa le comunità locali sono destinate spesso ad essere considerate come i “guardiani” o i “custodi”, caricati di una responsabilità non commisurata alle disponibilità di mezzi e al potere in termini politico-decisionale a livello extra-locale.

I diritti di comunità locali noti come RES (Rights for Ecosystem) sono uno strumento flessibile della politica territoriale e dovrebbero promuovere la conservazione dell’ambiente attraverso la concessione di diritti specifici a chi ha un legame speciale con un certo territorio ed è disposto ad addossarsi, nella sua interazione con quel territorio, gli oneri di conservazione.
Questo strumento però – come sottolineato da Cristiano Tallé nel libro La Natura come soggetto di diritti – lascia aperta l’interpretazione di cosa sia una “comunità locale” e che cosa definisca “un legame speciale” con un territorio; inoltre rinnova i processi di oggettivazione come porta di accesso a tali diritti.
Il meccanismo finanziario contro la deforestazione REDD (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradetion) o REDD+ prende in considerazione i diritti dei popoli indigeni e in particolare le loro conoscenze dell’ambiente attraverso strategie di adattamento e resilienza.
Attualmente questo strumento risulta essere il più efficace e inclusivo, tuttavia porta con sé dei rischi di colonialismo ambientale: attraverso questo meccanismo, infatti, i Paesi industrializzati e le imprese possono sostenere finanziariamente le popolazioni indigene nella conservazione della natura, da un lato contribuendo finanziariamente allo sviluppo sostenibile in comunità terze secondo uno spirito di cooperazione, dall’altro sfilandosi però dalle proprie responsabilità di azione individuale, delocalizzando quindi l’azione per il clima, la natura e la biodiversità.
Inoltre, è importante menzionare il ruolo chiave delle donne: esse sono contemporaneamente tra le più vulnerabili agli impatti del clima e le principali custodi degli ecosistemi e della biodiversità locali. Risulta quindi fondamentale adeguare le politiche internazionali affinché integrino misure sensibili al genere e che siano capaci di garantire e riconoscere il ruolo che svolgono in prima linea.
Estrattivismo epistemico
La riflessione sul sapere “altro” parte dal presupposto che la comprensione del mondo è molto più ampia della comprensione occidentale del mondo.
La marginalità dei saperi indigeni e locali è il prodotto dei processi egemonici che hanno sfruttato, inferiorizzato, o addirittura soppresso, le conoscenze “altre” rispetto all’egemonia del sapere occidentale.
I saperi marginali, tradizionali, locali, indigeni sono modalità di conoscenza fondamentali per l’adattamento e la resistenza alla crisi globale, e per il mantenimento della diversità biologica, storicamente legata a quella culturale.
I primi esploratori che visitavano queste aree ricche di biodiversità durante il periodo coloniale riportavano spesso in patria le risorse e le conoscenze che trovavano, trasformandole in un prodotto utile e brevettabile. Nella maggior parte dei casi questo veniva fatto senza alcun riconoscimento delle persone da cui avevano ottenuto la conoscenza di tali risorse in primo luogo. Così è nato il termine ‘biopirateria’’ per definire il fenomeno dello sfruttamento delle conoscenze tradizionali delle comunità indigene.
Alcuni antropologici hanno definitivo questa pratica “estrattivismo epistemico”, cioè l’estrazione di conoscenze ecologiche indigene che, una volta decontestualizzate, vengono assimilate dal sapere occidentale, sia in ambito scientifico che ambientalista.
Dopo il saccheggio delle risorse naturali attraverso l’estrattivismo economico, anche le idee, le conoscenze, le immagini e le informazioni indigene vengono “rubate” in nome della logica capitalista che pervade il mondo intellettuale.
Altri studiosi parlano di “epistemicidio”, per cui saperi ecologici locali e conoscenze scientifiche legate all’ambiente portano solitamente a una svalutazione dei primi, pensati come formazioni pre-scientifiche per via della loro comprensione della natura intuitiva, locale, soggettiva, qualitativa e legata a una determinata cosmovisione; caratteristiche opposte rispetto alle pretese di oggettività, neutralità e universalità della scienza ufficiale.
Questo scenario ci fa riflettere su quanto il sapere scientifico ufficiale necessiti di un dialogo con altre forme di sapere che comunque nel tempo hanno contribuito alla ricerca scientifica occidentale. Capire gli effetti, cercare soluzioni e trovare forme di adattamento al clima che cambia, sono tra le sfide principali del mondo contemporaneo e sono proprio le voci locali, le parole delle persone che vivono quotidianamente i mutamenti climatici ad essere il punto di partenza per ogni tentativo di comprensione e di adattamento alla crisi ecologica.

Biodiversità, cultura e diversità linguistica
Molte società hanno sviluppato un rapporto secolare con la natura circostante, e i loro saperi emergono come un “contro-linguaggio” slegato dalle logiche che permeano i saperi occidentali. I modi altri ci dicono, in controluce, del modo nostro.
I sistemi di conoscenza locali, nel loro processo di trasformazione, hanno comunque assimilato tecniche e saperi provenienti dal mondo scientifico, adattandoli allo specifico contesto di applicazione.
Questa forma di sapere pratico, contestuale, soggettivo, flessibile e qualitativo differisce dalla techne, intesa come sapere tecnico, universale, impersonale, rigido e quantitativo. I saperi indigeni e locali invece portano con sé una ”ingombrante” dimensione spirituale. In epoca coloniale, infatti, la razionalità tecnico-scientifica occidentale, unita alla missione di conversione dei popoli “selvaggi”, ha operato proprio in direzione di una separazione della cultura dalla natura attraverso il “disincanto” di quest’ultima: svuotata dalle anime, dai mostri, dalla magia di cui godeva, la natura diviene così un oggetto docile, appropriabile, misurabile e monetizzabile attraverso opere di bonifica, deforestazione e cementificazione.
La modernità ci ha restituito un’immagine della natura fondamentale per il mercato: uno spazio pensato come “magazzino/discarica” da cui attingere e in cui riversare i nostri rifiuti. Il disincanto o la “disanimazione” della natura sono avvenuti diminuendo, in maniera più o meno cosciente, la gamma di relazioni che intratteniamo con essa.
La natura è stata privata della capacità di essere un luogo di interazione sociale tra soggetti che abitano un certo ambiente, divenendo unicamente riserva di risorse di cui appropriarsi e a cui dare un valore economico.
È necessario oggi che la scienza venga ripensata come parte di un’ecologia più ampia dei saperi, dove il sapere scientifico possa dialogare con quello laico, popolare, degli indigeni, delle popolazioni urbane marginali, e con il sapere contadino.
Un’ampia letteratura scientifica attesta ormai da diversi decenni come questa corrispondenza tra cultura, lingua e diversità della biomassa non sia un fatto casuale, ma il frutto di una co-evoluzione millenaria tra società e ambiente che ha dato forma al patrimonio bioculturale planetario.
L’80% della biodiversità globale si trova in regioni abitate da popolazioni indigene, che occupano quasi ogni bioma terrestre. La biodiversità verrà effettivamente preservata solamente valorizzando la diversità culturale; vi è infatti una corrispondenza tra la perdita di specie biologiche e della funzionalità degli ecosistemi e la riduzione della loro capacità di generare servizi ambientali di base, con il deterioramento delle culture e dei gruppi linguistici. La lingua risulta l’elemento fondamentale attraverso cui le società conoscono e danno senso al proprio ambiente, la cui perdita significa perdita di forme di sapere e di vita.
Oltre il mito del “buon selvaggio”
I dati scientifici sull’importanza del sapere indigeno per conservare la biodiversità parlano chiaro, ma una eccessiva romanticizzazione può sfociare nel mito del “buon selvaggio” guardiano della foresta, e rischia di portare con sé un processo di naturalizzazione inferiorizzante. I gruppi indigeni sono immaginati come abitanti di paradisi ecologici lontani dal caos della modernità.
Tuttavia, all’interno delle comunità socio-naturali non si danno mai convivenze idilliache: al contrario, proprio in quanto relazioni sociali, anche in queste comunità esistono dimensioni di conflitto, di armonia, di contraddizione e di reciprocità.
Oggi tale associazione risulta ancora più rischiosa in termini di sicurezza, dal momento che la vita di molti leader indigeni è spesso minacciata per via delle loro lotte per la protezione e diritti dei loro territori.
La scienza ci ha insegnato per anni a usare il genio ingegneristico umano e una tecnica razionale, ma oggi più che mai abbiamo bisogno di saggezza e di una visione olistica nella gestione delle crisi odierne.