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SI PUÒ PARLARE DI GIUSTIZIA CLIMATICA SENZA GIUSTIZIA PER GLI ANIMALI?

La crisi climatica ha portato a considerare le ingiustizie a essa implicate, ma spesso i discorsi si sono sempre fermati al genere umano senza considerare gli animali, che sono invece esposti a rischi estremi.
Dagli allevamenti intensivi allo sfruttamento economico, fino al degrado e all’usurpazione degli habitat naturali, le specie animali subiscono le conseguenze delle nostre azioni senza poter difendere la loro causa.

Eppure, la diversità biologica è la base per la stabilità e la vita dell’intero pianeta, e inserire questa narrativa all’interno dei discorsi sulla giustizia climatica potrebbe portare a una maggiore consapevolezza del problema e un cambio di paradigma.

Mucche al pascolo in Val di Mello. Foto: Lorena Piccinini

Crisi climatica e biodiversità

Il Living Planet Report 2022, pubblicato ad ottobre 2022 da WWF in collaborazione con la Zoological Society of London, ha posto attenzione sull’allarmante percentuale di perdita della popolazione selvatica mondiale negli ultimi decenni.

Il tasso di perdita si aggira intorno al 69% tra il 1970 e 2018, dove l’America Latina sta al primo posto tra le regioni del pianeta, con il 94%, e i pesci di acqua dolce al primo posto tra le specie più a rischio, con un tasso di perdita dell’83%. Le cause principali sono imputabili a degrado e frammentazione di habitat naturali, deforestazione, sfruttamento massivo delle risorse naturali, inquinamento, malattie, specie aliene invasive e crisi climatica.

Il rapporto AR6 prodotto dal secondo gruppo di lavoro dell’IPCC, pubblicato a febbraio del 2023, mostra come l’alterazione di ecosistemi marini, terrestri e fluviali sia in costante aumento, così come la perdita di specie, il che causa la diffusione di malattie ed eventi di mortalità di massa di piante e animali. Risultano minacciate di estinzione il 100% delle specie endemiche sulle isole, l’84% di quelle sulle montagne, il 12% di quelle sui continenti e il 54% di quelle oceaniche.

Le conseguenze di questi fenomeni gravano anche sugli esseri umani: contaminazione di acque potabili, degradazione di suolo e inquinamento atmosferico sono infatti grandi minacce per la vita umana. La perdita di biodiversità concorre inoltre a esacerbare i conflitti geopolitici e le migrazioni di intere popolazioni.

La giustizia climatica è fondamentale per affrontare le iniquità causate o aggravate dai cambiamenti climatici, compresi i diversi impatti sulle popolazioni mondiali. Mostra come genere, razza, etnia, età e reddito siano fattori determinanti, e come le persone più a esposte ai rischi legati al clima siano proprio quelle che sono più vulnerabili: persone con basso reddito, minoranze etniche, donne e popolazioni indigene.
In questa narrativa, tuttavia, gli animali sono assenti dalle discussioni riguardanti le catastrofi climatiche, anche se di fatto sono la categoria che ne sta subendo gli impatti in maniera più drastica.

L’impatto di allevamenti e agricoltura intensivi

Gli allevamenti sono tra i fattori che più contribuiscono al riscaldamento globale, e sono responsabili di una porzione che si aggira tra il 7% e il 18% di tutte le emissioni antropogeniche. 
L’allevamento di bestiame contribuisce ai cambiamenti climatici sia direttamente che indirettamente. Le emissioni associate alla fermentazione enterica e al letame ad esempio sono dirette, mentre quelle legate alla produzione e al trasporto di mangime (compresi i combustibili fossili utilizzati per la produzione di fertilizzanti chimici), alconsumo di suolo e alla deforestazione sono indirette.

Circa il 44% delle emissioni generate dal bestiame sono rappresentate dal metano, che viene rilasciato durante la fermentazione enterica (ossia l’eruttazione dei ruminanti) o emesso dalla decomposizione di letame. L’anidride carbonica rappresenta il 27% delle emissioni legate all’allevamento – emessa durante la produzione e trasporto di prodotti animali e mangime – e il restante 29% è protossido di azoto, attribuibile a concimi e fertilizzanti.

L’impatto degli allevamenti risulta ancora più significativo se consideriamo che il 40% dei terreni è coltivato per la produzione di mangimi, ma la carne da allevamento fornisce solamente il 18% del nostro apporto calorico.
Secondo le stime del WWF, il 70% della biomassa degli uccelli del pianeta è pollame da allevamento, e solo il 30% è costituito da specie selvatiche. Il 60% della biomassa dei mammiferi è costituito da bovini e suini da allevamento, il 36% da umani e appena il 4% da mammiferi selvatici.

Nonostante un quadro così inequivocabile, l’impatto degli allevamenti sul clima e le atrocità commesse dall’uomo verso gli animali non sembrano portare un peso morale o politico altrettanto significativo nei discorsi pubblici.

L’omissione di queste considerazioni non è accidentale, ma risponde a una lunga e millenaria eliminazione letterale e figurativa dell’animale. Per secoli gli esseri umani hanno rilegato sistemicamente la figura dell’animale attraverso l’allevamento, l’industria e le attività economiche solo per scopi utilitaristici.
Che siano addomesticati o selvatici, confinati o liberi, gli animali sono vittime di un’ideologia monumentale e di un sistema di sterminio che si perpetua almeno da decenni.

Lo specismo, ovvero la tendenza ad attribuire uno status superiore agli esseri umani rispetto alle altre specie animali, è così interiorizzato dagli umani, e la violenza verso gli animali così normalizzata, che non ci si interroga sui diritti che abbiamo sui corpi delle altre specie.

Da giustizia climatica a giustizia multispecie

Negli ultimi anni, la maggiore consapevolezza verso i diritti degli animali e l’importanza della biodiversità nel mantenere stabili e prosperi i diversi ecosistemi, ha dato via a un movimento di giustizia definito “multispecie”. Esso si basa su due principi fondamentali: 

  • l’approccio relazionale verso la giustizia, che riconosce le diverse pratiche di violenza ecologica e ambientale; 
  • il decentramento dell’uomo, riconoscendo il collegamento delle multiple e quotidiane interazioni che legano insieme tutti gli esseri umani e non.

La giustizia multispecie rifiuta tre idee correlate, identificate da Pierluigi Musarò e Lorenza Villani nella rivista Animot: che gli esseri umani siano fisicamente separati o separabili dalle altre specie e dalla natura non umana; che gli esseri umani siano unici rispetto a tutte le altre specie in quanto possiedono una mente e la capacità di controllare coscientemente il proprio comportamento; che gli esseri umani siano più importanti delle altre specie.

La giustizia universale non potrà essere raggiunta finché rimane in vigore un modello di violenza intrinseca. È sbagliato pensare che una giustizia climatica e sociale possa essere raggiunta se gli animali continuano a non essere considerati e inclusi nel sistema.È necessario prendere atto del fatto che la società occidentale ha portato all’eliminazione di alcune specie intese come vite portatrici di significato, comprese quelle da allevamento: s-oggetti che si estinguono attraverso la loro sovra(ri)produzione. La riproduzione biologica estensiva produce simbolicamente l’animale come “carne” consumabile e macellabile, e non come vita portatrice di senso e beneficiaria di diritti.

Mulo al lavoro sui Monti Lattari. Foto: Lorena Piccinini

Il capitalocene e il mito del progresso antropocentrico

La crisi climatica è un prodotto del sistema economico, sociale, culturale e politico che in meno di due secoli ha cambiato drasticamente il mondo. Per questo serve rivedere il paradigma che ha contribuito a produrre la crisi in atto, portando umani e non a convivere in modo conflittuale in un pianeta sempre più contaminato e inabitabile.

Gli impatti sono evidenti anche nel nostro Paese: solo sul territorio italiano nel 2022 sono stati registrati ben 310 eventi climatici estremi, che nel 2023 sono aumentati del 135%. Dal 1980 al 2023, sempre in Italia, sono decedute 22.000 persone a causa di eventi climatici estremi.
Ma sono i cosiddetti Paesi del Sud globale, che pure contribuiscono meno alle emissioni di gas serra, quelli che subiscono e subiranno il maggiore impatto dei cambiamenti climatici.
Inoltre, anche all’interno delle stesse nazioni esistono diversi fattori di rischio socioeconomici, demografici, sanitari, geografici e di altro tipo – come la povertà, la condizione di minoranza, il genere, l’età le malattie e disabilità – che rendono alcuni sottogruppi più vulnerabili di altri.Per parlare di giustizia bisognerebbe analizzare anche due diversi aspetti correlati: la giustizia distributiva, che mette in luce la non corrispondenza tra chi maggiormente emette e chi più soffre le conseguenze di quelle emissioni; e la giustizia intergenerazionale, che concerne la dimensione temporale per cui gli effetti del cambiamento climatico si manifestano a distanza di decenni e dunque saranno soprattutto le generazioni future a rischiare di vedere il loro benessere compromesso. 

Lo stesso termine Antropocene, coniato nel 2000 dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen per indicare la modificazione della stratigrafia terrestre a seguito dell’azione umana, non riconosce le disuguaglianze in termini di responsabilità e conseguenze dell’impatto dell’uomo sul pianeta, e non ne denuncia le cause legate al modello culturale occidentale e al sistema di estrazione, produzione e riproduzione capitalistico.

Jason W. Moore propone un termine alternativo, Capitalocene, che meglio identifica le responsabilità di determinati gruppi e la causa degli effetti devastanti di un sistema predatorio e insostenibile. Esso è il risultato della cultura occidentale che si è basata per anni sull’idea di natura come oggetto estraibile all’infinito, ma anche sul mito del progresso umano-centrico e capitalistico.

La questione animale si inserisce in questa ideologia ed è sempre stata trattata da un punto di vista antropocentrico e della perdita subita; riconoscere i loro diritti comporterebbe infatti una rinuncia a risorse e stili di vita che dipendono dagli animali, rinuncia che l’uomo fatica ad accettare.

Come denuncia il filosofo Byung-chul Han il narcisismo egoistico, la costante ricerca del nuovo e dell’inedito e l’ossessione consumistica determinano, nella società contemporanea, la delegittimazione del dolore e la scomparsa delle forme rituali. Egli, infatti, afferma: “Dovremmo prendere consapevolezza della vulnerabilità e finitudine della nostra esistenza e renderla preziosa, sia la nostra in quanto umani, sia quella delle altre specie e del pianeta. La risignificazione del lutto e della morte all’interno di un nuovo regime ecologico è forse il passaggio culturale che manca. È necessario legittimare un altro immaginario, un altro mondo possibile perché una società come la nostra è incapace di riconoscere la sofferenza come parte della vita. La vulnerabilità umana stride con la struttura sociale, economica e culturale delle società occidentali capitalistiche basate sul mito dell’autorealizzazione e della costante crescita”.

Un cavallo allo stato brado in Kyrgyzstan. Foto: Lorena Piccinini

Verso una giustizia biologica

La giustizia per tutte le specie è condizione stessa per il nostro futuro, perché senza di loro la Terra diventerebbe inabitabile anche per l’umanità: la stabilità e la resilienza del Sistema Terra e del benessere umano sono indissolubilmente connessi. 
Non si tratta solo di giustizia morale o umanistica, dunque, ma prima di tutto biologica.

La nostra presenza sulla Terra porta già inscritta nel suo principio l’accordo sostanziale con l’equilibrio biologico. 

Invasioni ricorrenti travagliarono la città di Teodora nei secoli della sua storia; a ogni nemico sgominato un altro prendeva forza e minacciava la sopravvivenza degli abitanti. A una a una le specie inconciliabili con la città dovettero soccombere e si estinsero. […] La città, grande cimitero del regno animale, si richiuse asettica sulle ultime carogne seppellite con le ultime loro pulci e gli ultimi microbi. L’uomo aveva finalmente ristabilito l’ordine del mondo da lui stesso sconvolto: nessun’altra specie vivente esisteva per rimetterlo in forse.
Le città invisibili, Italo Calvino.

Articolo a cura di Lorena Piccinini, volontaria di Italian Climate Network.

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