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Lug

Barriere coralline al collasso: strategie di resilienza

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di Marco Milano

 

Le barriere coralline sono in grave pericolo. A suscitare il panico di ambientalisti e scienziati è stato in particolare lo sbiancamento record di quest’anno della grande barriera corallina australiana, nei circa 1000 chilometri di costa compresi tra Cairns e lo Stretto di Torres.  Questi dati rivelano una situazione di fortissimo stress dell’ecosistema corallino australiano. L’indebolimento e la sparizione delle barriere coralline rappresentano una grave minaccia per gli ecosistemi marini e la pesca in quanto comportano una perdita di parte consistente delle risorse ittiche. I colpevoli sono il riscaldamento degli oceani e l’inasprirsi delle anomalie climatiche come l’ultimo episodio di El Nino.

L’unica speranza di recupero del tratto di barriera corallina interessato da questo fenomeno sembra essere un’ondata di maltempo e il passaggio di un ciclone che possa abbassare le temperature delle acque. In questo scenario, si registrano però alcune eccezioni che aprono la strada a possibili strategie di adattamento e mitigazione per salvare le barriere coralline. Si tratta di piccole “isole” all’interno delle barriere che risultano più resistenti e non particolarmente danneggiate quanto le aree circostanti.

Uno studio dettagliato in questo senso è stato condotto gli ultimi tre anni da un team di ricerca della James Cook University di Townsville, in Australia, i risultati sono stati pubblicati in sulla rivista Nature. I ricercatori australiani hanno studiato le condizioni ecologiche di circa 2500 barriere coralline a livello globale, e da questa mole di dati hanno isolato 15 casi di zone più fortunate, definite “bright spots“, insieme a 35  punti a condizioni estreme opposte, chiamati “dark spots“. Cosa identifica questi punti come chiari o scuri? Il parametro più importante è certamente lo stato di salute delle specie acquatiche presenti in queste zone. Tale stato non dipende solamente dalla pressione delle attività di pesca (ossia dalla biomassa marina che viene conservata), ma anche da parametri ambientali e, soprattutto, socio-economici. La ricerca, infatti, pone l’accento sulle politiche di gestione delle risorse naturali e introduce interessanti elementi innovativi per questo tipo di analisi, affiancando a variabili ambientali ed ecologiche parametri di tipo sociale ed economico. Secondo i ricercatori guidati da Joshua Cinner, non si può concludere che uno spot soffra meno rispetto al resto di una barriera solo perché dispone di più pesce o perché le operazioni di pesca sono più frequenti. In questo caso, infatti, la statistica è più complessa e deve tener conto, spesso caso per caso, di quale sia l’approccio e la gestione delle risorse scelti dalla popolazione.

Considerando l’elevato numero di eventi monitorati, e la varietà di fattori ambientali ed ecologici in gioco, uno studio del genere rischia comunque di non fornire un quadro sufficientemente chiaro per comprendere i mutamenti in atto. Il metodo scelto è stato già collaudato con successo in passato per uno studio analogo, condotto dall’associazione Save the Children, che analizzava i dati di salute e nutrizione di una popolazione di bambini vietnamiti particolarmente vulnerabile e in povertà.

Risultato? L’interpretazione complessiva dei dati suggerisce che i bright spots sono tali perché solitamente più protetti da istituzioni socio-culturali. Infatti, la loro presenza sul territorio garantisce una partecipazione consapevole all’uso e alla cura delle risorse, oltreché condizioni ambientali più favorevoli, come la presenza di fondali marini più profondi e adatti alla protezione della fauna ittica. I dark spot, viceversa, sono quelli che soffrono maggiormente per gli shock ambientali derivanti da eventi estremi (sbalzi di temperatura più importanti, fenomeni atmosferici imprevisti eccetera), e che subiscono soprattutto l’assenza di una gestione intelligente e sostenibile delle risorse.

Esistono quindi alcuni ecosistemi corallini con una maggiore capacità di resistere ai cambiamenti ambientali locali e al riscaldamento globale. Tuttavia, la loro sopravvivenza è strettamente legata alla  gestione della pesca, che da minaccia per le risorse, può diventare anche il primo strumento utile al mantenimento di tali ecosistemi.

Questo studio – come succede per altre ricerche di base, non solo in tema di cambiamento climatico – è solo il primo passo. Tuttavia, al di là delle previsioni più o meno incoraggianti, si tratta di una premessa particolarmente interessante considerando che la letteratura in questo settore è piena di statistiche poco ‘creative’. La maggior parte dei paper dedicati alla salute barriere coralline, infatti, si limita in sostanza a confermare i possibili trend di peggioramento, senza suggerire progetti per possibili strategie di difesa, come ha commentato Peter Kareiva, direttore dell’istituto per l’Ambiente e la Sostenibilità dell’Università della California – Kareiva, inoltre, ha in parte ispirato lo studio di Cinner, essendo autore proprio dello studio analogo condotto negli anni ’90 in Vietnam.

Nonostante l’enorme quantità di dati, altri sono ancora necessari per raggiungere una migliore confidenza statistica, e rendere più solida la relazione tra pesca e condizioni ambientali (è essenziale, per esempio, aggiungere il dettaglio sulla grandezza delle singole specie ittiche sopravvissute). Si può tuttavia già pensare di utilizzare questo metodo di analisi anche in altri contesti di fragilità ambientale, come le foreste minacciate dall’aumento di incendi, e mettere così meglio a fuoco gli strumenti per aumentare la  capacità degli ecosistemi di rispondere al cambiamento climatico. In una parola: resilienza.

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