I CAMBIAMENTI CLIMATICI FUORI E DENTRO DI NOI
Negli ultimi anni, la crisi climatica ed ecologica è passata dall’essere soprattutto una questione scientifica e politica a diventare una vera e propria emergenza di salute pubblica.
Oltre all’aumento di disturbi psichiatrici – come il disturbo da stress post-traumatico e la depressione scatenati da eventi climatici estremi – si osservano sempre più spesso intense reazioni psicologiche anche in chi questi eventi non li ha vissuti direttamente, tra cui ansia, senso di lutto e impotenza. Comprendere questi fenomeni diventa dunque essenziale per affrontare le sfide ambientali e sociali, attuali e future.
L’ambiente in rapida trasformazione in cui viviamo oggi interviene sulla salute cerebrale, sul comportamento, sulla nostra cognizione e anche sul processo decisionale.
Con l’aumento dei livelli di CO2 e l’aumentare delle ondate di calore è stato studiato che si possono verificare casi di riduzione della capacità di soluzione dei problemi, prestazioni cognitive e apprendimento, oltre che aumenti di fenomeni violenti come aggressioni e odio.
I cambiamenti climatici risultano quindi essere anche una grave minaccia per la sicurezza oltre che una crisi di salute pubblica, di cui tuttavia viene ignorata la vera portata: contaminazione di aria e acqua, aumento della gamma di vettori di malattie cerebrali, eventi estremi e disturbi post-traumatici. Il clima in trasformazione agisce inoltre intimamente sui nostri sistemi sensoriali, può innescare ansia e depressione, può deteriorare il linguaggio e quindi la percezione della realtà.
Guardare dentro sé stessi e rapportarsi al cambiamento in termini anche emotivi può aiutare a concettualizzare la crisi, accettarla, sviluppare resilienza e trovare soluzioni per orientarci nella nuova normalità.
Il ruolo della psicologia
Per meglio comprendere e affrontare il periodo delle policrisi in cui stiamo vivendo, la psicologia può aiutarci a raggiungere una maggiore consapevolezza e responsabilità collettiva, elementi essenziali per una transizione equa e sostenibile. Comprendere i fattori psicologici che influenzano il comportamento umano è cruciale per sviluppare strategie efficaci di comunicazione e mobilitazione sociale.
La psicologia climatica può essere un nuovo modo di comprendere la paralisi collettiva che si verifica di fronte all’aggravarsi della crisi climatica, e può essere in grado di fare luce sulla complessa interazione bidirezionale tra la sfera personale e quella sociale e politica.
I cambiamenti climatici e la distruzione dell’ambiente possono scatenare in noi sentimenti intensi: perdita, dolore, colpa, ansia, vergogna, disperazione, solastalgia. Questi sentimenti sono difficili da sostenere e possono sollecitare l’attivazione di meccanismi di difesa e strategie di coping, che possono minare la nostra capacità di affrontare il problema in maniera adeguata.
Se le persone non fanno parte di una comunità impegnata e di sostegno, la consapevolezza climatica può portare a un senso di impotenza che può sfociare nella frustrazione, disperazione e depressione.
Diverse ricerche e sondaggi mostrano complessivamente un’elevata preoccupazione pubblica per i cambiamenti climatici, ma una scarsa adozione di azioni per affrontarli (vedere tabella della figura 1).
Quando una persona adulta diventa consapevole di quanto sia enorme la minaccia dei cambiamenti climatici, può facilmente passare da uno stato di negazione a uno di sopraffazione, in cui la minaccia viene vissuta in modo catastrofico. Questo può portare a un’angoscia paralizzante, equivalente a un trauma psicologico, che può avere un impatto significativo sulla salute mentale.
Studiare i meccanismi psicologici di risposta a questi fenomeni è fondamentale per superare le sfide future e creare azioni e strategie adeguate.

Meccanismi psicologici di negazione
Il tema dei cambiamenti climatici può sembrare troppo complesso, troppo lontano, troppo grande. Un “iper-oggetto”, come definito dall’eco-filosofo Morton, che ha evidenziato l’impossibilità di comprenderne la portata e la qualità.
La crisi climatica è dunque paradossalmente un concetto estremamente astratto, difficile da fissare, ma allo stesso tempo è presente qui e ora nello spazio sociale ed esperienziale.
La vasta raccolta di informazioni scientifiche sui cambiamenti climatici purtroppo non è riuscita a rendere questa realtà accessibile alla maggior parte delle persone: maggiori informazioni possediamo sugli iper-oggetti, meno ne sappiamo.
Questa difficoltà nella comprensione del fenomeno può portare a diverse forme di negazionismo, che si manifestano attraverso diverse modalità di distacco dalla realtà, dal tenerla momentaneamente a distanza al trovare modi più rigidi per bloccare la consapevolezza.
Freud ha descritto due tipi di negazione: la “negazione” riferita a qualcosa di conosciuto che viene rifiutato perché considerato non vero, non presente, non accaduto, e il “disconoscimento“, riferito a qualcosa di conosciuto, ma non considerato come importante. Quest’ultimo può persino consentire a una persona di negare e allo stesso tempo riconoscere l’esistenza di un fenomeno con parti diverse della mente.
La negazione può anche essere consapevole e cinica, talvolta chiamata “negazionismo“: quello climatico, nello specifico, si adopera per dare impulso a tutte le diverse forme di negazione per raggiungere lo scopo prefissato, ovvero il mantenimento dello status quo per l’industria dei combustibili fossili.
Esiste anche la “negazione implicita”, in cui si riconoscono i fatti senza la conseguente responsabilità di agire su di essi. Questo meccanismo permette alle persone di evitare di sentirsi responsabili delle proprie azioni, e quindi a disagio.
Comprendere questi meccanismi risulta fondamentale per prendere consapevolezza dei nostri limiti e delle trappole psicologiche che possono innescarsi.
Il clima che (ci) cambia
Un gruppo di ricerca dell’Accademia Sinica di Taiwan ha studiato gli effetti dei cambiamenti climatici sui pesci pagliaccio. L’acidificazione delle acque oceaniche, causata dall’aumento della CO2 in atmosfera, pare stia danneggiando le capacità di questi pesci di riconoscere e percepire i pericoli tramite i loro sensi olfattivi e uditivi, con la conseguenza di andargli incontro invece di fuggire. E se stesse capitando la stessa cosa anche agli esseri umani?
Secondo le teorie neuropsicologiche, la funzione del cervello è quella di creare modelli del mondo: costruire e immagazzinare le predizioni su come va il mondo esterno in modo da minimizzare la sorpresa.
Il quadro che viene elaborato non è statico, ma viene rimodellato attraverso le informazioni sensoriali evidenziando la inestricabilità tra mente e corpo. Se l’ambiente cambia nel mondo esterno allora è necessario che cambiamo anche noi, ed è compito del cervello aggiornare il “modello” che risulta obsoleto o non più efficace.
Anche il clima è un modello, un’idea della mente. In questo modo le nostre aspettative sugli eventi meteorologici sono prodotte dell’osservazione, ragionamento, memoria. A un certo punto abbiamo avuto bisogno di creare il modello del clima per la nostra stabilità culturale e psicologica.
I ricordi metereologici invece sono molto personali e fortemente emotivi, poiché il ricordo è per lo più associativo, una collezione di esperienze percettive che sono state collegate insieme. Affidarci solo a questi per creare dei modelli di predizione potrebbe essere quindi fuorviante.
Secondo la teoria del tutto di Friston, lo scopo di tutti gli esseri viventi è massimizzare le evidenze per il proprio modello in modo da minimizzare le sorprese che si incontrano nel mondo. Le cause sono in tutto ciò che è esterno a noi, le conseguenze sono invece le percezioni che abbiamo di questo mondo. Quando le nostre aspettative corrispondono alle nostre percezioni il cervello sta facendo un ottimo lavoro. Quando non succede apportiamo le dovute correzioni, cioè ci adattiamo.
E se i cambiamenti nell’ambiente richiedessero più di una semplice correzione del modello? E se stessero corrodendo la capacità stessa dei nostri modelli di adattarsi?
I nostri sforzi di modellizzazione dipendono dalla capacità di percepire l’ambiente; tuttavia, i cambiamenti climatici minacciano i nostri sensi e mettono a rischio la capacità di notare alcuni dei segnali più rilevanti per la nostra sopravvivenza.
Gli impatti del cambiamento ambientale sul cervello si prestano a radicare false credenze. La velocità con cui cambio le mie credenze dipende molto dalla disponibilità di una stima corretta delle evidenze a disposizione. Se questa correttezza vacilla, gli organismi diventano giustamente e razionalmente resistenti al cambiamento.
Il cambiamento è dunque funzionale all’adattamento, ma non sempre è sano: a volte il modo di affrontare un cambiamento può essere patologico. Ne è un esempio la depressione: l’isolamento che ne deriva è un modo perfettamente razionale di scendere a patti con un mondo spaventoso, opprimente e in continuo cambiamento. È un comportamento evitante in tutto e per tutto funzionale.
Fortunatamente, la neuroplasticità del nostro cervello ci può consentire di adattarci e di cambiare e, rispetto ad altre specie viventi, possiamo farlo nel corso della nostra vita, non serve attendere diverse generazioni.
Identità e lingua

“Camminavo lungo la strada con due amici, quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”.
La maggior parte della letteratura condivide la teoria che il famoso quadro di Munch sia la rappresentazione moderna dell’angoscia umana, e che la natura faccia da mero sfondo e compartecipa al dolore. Tuttavia, c’è anche una teoria secondo cui l’episodio descritto nel diario del pittore, che avrebbe poi scatenato la realizzazione del famoso quadro, possa essere stata la manifestazione di un evento climatico unico, conseguente all’eruzione del vulcano Krakatoa tra il 1883 e 1884, in cui i gas e le polveri produssero fiammeggianti crepuscoli in tutto il mondo, e che corrisponde al periodo della scrittura del diario. Il nome originario in tedesco del quadro è infatti Der Schrei der Natur (L’urlo della natura), e sposta completamente il focus. Sì, perché quando la natura crolla noi crolliamo con lei. Forse quello di Munch potrebbe essere il primo caso di ecoansia documentato?
L’ambiente e il paesaggio sociale hanno un ruolo importante nella formazione dell’identità, e quando mutano o vengono gravemente danneggiati si possono verificare episodi emotivi disfunzionali o perdita identitaria.
Come i neuroni a specchio ci permettono di essere sensibili alle azioni e alle emozioni delle altre persone, e quindi provare empatia, qualcosa di simile può accadere, a livello neurologico, con l’ambiente.
Pensiamo per esempio a quanto una foresta o una montagna possano rappresentarci, o quanto il luogo dove si passavano le vacanze durante l’infanzia possa averci formato.
L’esperienza del dolore, nel caso si verifichino modifiche di un ambiente a noi caro, è strettamente intrecciata con le nostre emozioni, i pensieri, i ricordi a testimonianza di quanto sia profonda l’interconnessione tra mente, corpo, sé e mondo. Anche la lingua offre un legame molto intimo tra parlante, ambiente e creazione identitaria.
Diversi studi linguistici, tra cui la ricerca di Boroditsky, mostrano come il modo in cui la presenza o assenza di alcune categorie linguistiche può influenzare la memoria o altri processi cognitivi. Il linguaggio gioca un ruolo fondamentale nel plasmare la nostra percezione. Vi è una forte interazione tra linguaggio, cognizione, cultura e anche cambiamenti climatici.
Prendiamo a esempio la scomparsa delle lingue indigene e minoritarie, che si spengono per diversi motivi quali l’influenza esterna di lingue dominanti o potenti, la globalizzazione, la colonizzazione e l’assimilazione culturale.
Anche i fattori climatici e ambientali possono influenzare la diffusione o la scomparsa delle lingue; le piccole comunità linguistiche, che vivono ad esempio su isole e coste, possono essere soggette a migrazione climatica, e la loro ricollocazione e dispersione forzata può portare alla frammentazione della loro lingua.
Inoltre, il clima trasformandosi erode la diversità linguistica che nasce dall’esperienza umana all’interno di specifici ambienti. Le persone cambiano con il mutare dei contesti e smettono di fare certe cose: di conseguenza non usano più il vocabolario pertinente, quindi qualcosa si atrofizza.
La precisione linguistica ci permette di dare struttura al caos del mondo e attraverso la creatività linguistica possiamo giocare con questa struttura. La popolazione dei Sami del Nord, ad esempio, possiede 318 parole per definire la parola “neve”. Tuttavia, con il mutare del clima, tante definizioni non trovano più una loro applicazione e di conseguenza stanno svanendo. E, se si perdono le lingue, si perdono anche le storie che tramandano.
Se il linguaggio cambia, anche una grossa parte del cervello deve cambiare di conseguenza – e quando perdiamo il linguaggio la plasticità del cervello si deteriora.
Gestire diverse lingue aumenta la flessibilità cognitiva: ogni lingua che impariamo crea nuovi percorsi nel nostro cervello e il plurilinguismo coltiva resilienza e flessibilità, arricchendo la nostra comprensione del mondo.
Cultura della (non) cura
Le persone tendono a mostrare un giudizio favorevole nei confronti di chi percepiscono come facenti parte del loro in-group e a mostrare un pregiudizio negativo e una discriminazione nei confronti di quelli che avvertono come facenti parte del loro out-group.
Ciò succede anche nel rapporto con la natura: se viene questa percepita come parte dell’out-group ciò può portare a delle contrapposizioni tra uomo e natura, favorendo comportamenti anti-ambientali. Il concetto che gli esseri umani siano separati dalla natura è fortemente legato alla convinzione che le persone siano superiori a essa e che, quindi, possano dominarla e superarne i limiti.
Questa convinzione è anche accompagnata da un sentimento di legittimità: la natura esiste affinché l’uomo possa sfruttarla per i propri fini. Quest’insieme di convinzioni è alla base dell’idea di modernità: pervade i nostri sistemi politici ed economici, ed è alla base delle risposte globali ai cambiamenti climatici. È la radice della crisi ecologica, poiché ha portato l’umanità ad anteporre i propri interessi a quelli del pianeta, e ad adottare uno stile di vita senza limiti sfruttando eccessivamente le risorse naturali e sovrastando i cicli e i processi della biosfera.
Sally Weintrobe sostiene che la cultura neoliberale ci ‘non-cura’ in modo attivo: alimenta una sproporzionata legittimità a essere, avere tutto senza sentirsi responsabili, minando la nostra capacità di prenderci cura degli altri. Questa ci fa dissociare dalle emozioni dolorose associate all’economia neoliberale che sta danneggiando il sistema di sopravvivenza degli individui e del pianeta.
Quanto più gli individui sostengono valori e obiettivi che vanno oltre il proprio interesse personale immediato, tanto più è probabile che si impegnino in comportamenti proambientali, nella cura e nell’attenzione per l’altro e per il mondo naturale. Al contrario, valori e obiettivi che hanno a che fare con il miglioramento del proprio status e con il potere sull’altro sono associati all’assenza di preoccupazione per il benessere delle altre persone e/o del mondo naturale, e con un maggiore materialismo.In un’epoca in cui l’impetuosità è diventata la norma e dove il fallimento culturale e letterario sta al cuore della crisi climatica, sviluppare la nostra comprensione del modo in cui valori, obiettivi e altri fattori psicologico-sociali interagiscono per influenzare la nostra cognizione e il nostro comportamento è fondamentale per garantire che le nostre risposte alla crisi ecologica siano adattive e proattive, aiutandoci a fronteggiare le sfide attuali e future.
Articolo a cura di Lorena Piccinini, coordinatrice della sezione Clima ed Educazione di Italian Climate Network.
