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30
Set

IL CLIMATE SUMMIT ALL’ONU, TRA NUOVE PROMESSE E VECCHIE INCERTEZZE

L’80esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York si è svolta in uno scenario geopolitico segnato da frammentazione e tensioni crescenti. Tra i momenti di maggiore rilievo c’è stato il Climate Summit del 24 settembre, convocato dal Segretario generale António Guterres con l’obiettivo di spingere i governi a presentare nuovi piani nazionali per il clima (gli NDC, Nationally Determined Contributions), in vista della COP30 che si terrà a novembre a Belém do Pará, in Brasile.

Più di cento Paesi hanno colto l’occasione per annunciare ufficialmente nuovi impegni o la volontà di aggiornarli a breve. Tuttavia, questi impegni coprono ancora solo la metà delle emissioni globali e, in particolare, i principali responsabili delle emissioni continuano a muoversi in maniera insufficiente rispetto all’urgenza della crisi. L’assenza degli Stati Uniti guidati da Donald Trump era data quasi per scontata e conferma la linea di disimpegno, mentre l’Unione europea, pur ribadendo la sua ambizione climatica, è in ritardo nella presentazione del nuovo NDC. Bruxelles ha promesso di renderlo pubblico prima della COP30, con un obiettivo atteso di riduzione delle emissioni tra il 66 e il 72% entro il 2035, e con un orizzonte al 2040 che prevede un taglio del 90%.

Il Brasile, Paese ospitante della prossima COP, ha scelto di dare un segnale politico forte: il nuovo NDC prevede una riduzione netta delle emissioni compresa tra il 59 e il 67% entro il 2035 prendendo come riferimento il 2005, e Lula ha promesso anche la fine della deforestazione entro il 2030.
Anche la Cina ha messo sul tavolo una proposta, meno ambiziosa ma comunque significativa, che punta a ridurre le emissioni del 7-10% entro il 2035 rispetto al livello massimo raggiunto.

Accanto ai grandi attori, sono stati ancora una volta i piccoli Stati insulari a portare in primo piano la dimensione esistenziale della crisi climatica, ricordando che la mancata azione rapida rischia di rendere vano l’intero processo multilaterale. La delegazione di Palau ha ricordato la storica decisione della Corte Internazionale di Giustizia, che ha riconosciuto come affrontare la crisi climatica sia un obbligo giuridico per gli Stati e non soltanto una scelta politica. La prima ministra delle Barbados, Mia Mottley, ha invece sottolineato la necessità di una riforma profonda dell’architettura finanziaria internazionale e l’introduzione di strumenti innovativi che consentano ai Paesi vulnerabili di realizzare i propri piani climatici.

Nel suo discorso, Guterres ha insistito sulla necessità che la COP30 dia vita a un piano globale credibile, capace di accelerare la transizione energetica verso le rinnovabili, ridurre drasticamente le emissioni di metano, fermare la deforestazione, abbattere quelle prodotte dalle industrie pesanti e, soprattutto, garantire la giustizia climatica. Senza un salto di qualità negli impegni, il rischio è quello di alimentare la sfiducia nei confronti della diplomazia climatica internazionale, già messa a dura prova dalla lentezza dei negoziati.

Sul futuro prossimo incombe anche la partita delle prossime conferenze: Turchia e Australia hanno entrambe ufficializzato la candidatura per ospitare la COP31 nel 2026. Ma la vera sfida, come ha ricordato il Climate Summit, non è la sede dei negoziati, bensì la capacità dei governi di tradurre le promesse in politiche concrete, in grado di ridurre le emissioni in tempi compatibili con la scienza e con la sopravvivenza delle comunità più esposte alla crisi climatica.


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