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“UNABATED”: COME UNA PAROLA POTREBBE FAR FALLIRE LA PARTITA DEL SECOLO

  • Uno dei nodi ancora aperti della decisione finale di COP28 è l’inserimento del termine “unabated” accanto al phase out dei combustibili fossili, ovvero il loro completo abbandono.
  • Con “abated”, si intende l’utilizzo di tecnologie di cattura dell’anidride carbonica emessa da grandi impianti.
  • Le attività di lobbying dell’industria oil&gas hanno però già piegato i governi del G20 alla loro posizione e ora, spingendo per l’inserimento del termine “unabated, rischiano di farci sprecare l’ultima finestra utile al raggiungimento degli obiettivi di Parigi

Uno dei più importanti risultati della COP28, probabilmente l’ultima occasione che abbiamo per contenere la temperatura media globale entro gli 1,5°C e quindi proteggerci dai danni più severi della crisi climatica, sarebbe la menzione del phase-out (eliminazione) dei combustibili fossili nella decisione finale dei negoziati.

È di per sé estremamente positivo che si menzioni nel testo il phase out (e non phase down, riduzione). Tuttavia, a questa espressione viene affiancato un termine che può sembrare  innocuo, ma che potrebbe risultare decisivo per delineare il processo di decarbonizzazione: “unabated”.  

Cosa significa “unabated”

Il termine è comparso per la prima volta nel testo finale di una COP sul clima nel 2021, quando nel “Glasgow climate pact” che ha chiuso la COP26 è stato inserito a proposito del phase down del carbone “unabated”. 

Il cosiddetto abbattimento comporta la combustione di carbone, petrolio e gas combinata con la cattura e lo stoccaggio permanente di una parte delle emissioni di CO2 risultanti: l’applicazione, cioè, di tecnologie CCS (“carbon capture and storage”).

Si tratta di tecnologie applicate già da decenni dall’industria oil&gas per l’Ehanced Oil recovery, cioè per recuperare il petrolio o il gas residui dai depositi in esaurimento.

Più di recente queste tecniche si sono estese a catturare l’anidride carbonica in modo puntuale dagli scarichi di centrali elettriche o di stabilimenti industriali, prima che raggiunga l’atmosfera. Una volta catturata, la CO2 viene poi stoccata o in modo permanente in formazioni geologiche nel sottosuolo, o in modo temporaneo in prodotti di vario tipo.

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Crediti: European Commission, DG TREN

Una scappatoia

Lo scenario a cui il presidente della COP28 Al Jaber sembra alludere nei suoi discorsi è quello in cui l’obiettivo degli 1.5°C venga raggiunto tramite la riduzione delle emissioni da combustibili fossili”, e non tramite la riduzione della domanda e produzione degli stessi. In pratica, uno scenario in cui la CCS viene utilizzata a grande scala. 

È infatti notizia delle ultime ore che il Segretario generale dell’OPEC – Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio – Haitham Al Ghais avrebbe scritto una lettera ai membri dell’OPEC stessa, invitandoli a respingere in fase di negoziazione alla COP28 qualsiasi testo o formula che abbia come obiettivo i combustibili fossili, piuttosto che le emissioni

L’uso della CCS rappresenta dunque per l’industria dell’oil&gas una scappatoia, una sorta di carta per uscire gratis di galera, dando l’impressione che sia possibile raggiungere gli obiettivi climatici pur mantenendo un consumo su larga scala di combustibili fossili (quelli abated, appunto). 

Questa non è una novità, ma una delle narrative ricorrenti dei Paesi produttori di combustibili fossili e dell’industria oil&gas, che nel tempo hanno già condotto un’azione di lobbying talmente invasiva da influenzare le politiche climatiche di diversi paesi, come mostra un’analisi di InfluenceMap. Il think tank ha esaminato le recenti comunicazioni ad alto livello di 21 governi nazionali (G20 ed Emirati Arabi Uniti) relative a CCS e eliminazione dei combustibili fossili, e ha concluso che le posizioni di ben 17 dei 21 paesi riflettono quelle del settore petrolifero e del gas. 

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Cosa dice la scienza

Sul phase out dai combustibili fossili la scienza è estremamente chiara
In tutti gli scenari delineati dall’IPCC che permettano il contenimento dell’aumento della temperatura a +1,5°C con limitato overshoot, l’uso complessivo di combustibili fossili diminuisce drasticamente

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Crediti: Carbon Brief. Report del WG3 AR6 IPCC: le emissioni del settore unabated sono mostrate in giallo scuro (fossil CO2), mentre quelle abated tramite CCS sono in grigio.

L’IPCC sottolinea anche che le sole infrastrutture esistenti e quelle già progettate per l’estrazione di fossili, se utilizzate in linea con le medie storiche, sarebbero sufficienti per farci sforare in pochi anni il limitato carbon budget rimasto se vogliamo tener fede all’obiettivo degli 1,5°C (a gennaio 2024 circa 270 Gton, cioè circa 6 anni di emissioni attuali).

Analoga la posizione dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), il cui scenario NZE (“net zero emission”) prevede sia una drastica riduzione dell’uso di combustibili fossili unabated, che un ruolo molto ridotto per quelli abated. Nell’NZE al 2050 l’offerta totale di combustibili fossili diminuisce dell’83%: in dettaglio l’offerta di petrolio diminuisce del 78%, quella di gas del 78%, quella di carbone del 92%. 

“L’uso intenso della CCS per gli scenari di decarbonizzazione è una fantasia”, ha dichiarato Faith Birol, direttore dell’IEA.

Urgent call for action: IEA's 2023 update to Net Zero roadmap

Tutto questo non significa che le tecnologie CCS siano inutili: al contrario, saranno fondamentali per controbilanciare le emissioni rimanenti dovute ai cosiddetti settori “hard to abate”, cioè quelli per i quali non abbiamo ancora soluzioni alternative ai fossili (ad esempio, produzione di cemento e acciaio). Mai, però, dovrebbero essere considerate come un’alternativa alla riduzione delle emissioni: si tratta di una opzione troppo inefficiente e costosa per essere utilizzata alla scala suggerita dagli Emiri. Una risorsa preziosa, insomma, da non sprecare quando sono disponibili alternative, cioè per circa il 90% delle emissioni attuali.

Lo stato dell’arte

Nonostante l’impiego di ingenti sussidi stanziati da parte di Stati (Canada, USA, Norvegia) e di capitali privati, le tecnologie CCS si sono sviluppate a passo di lumaca.
Stando ai dati dell’IEA, attualmente a livello globale sono operativi circa 40 impianti commerciali; questi sequestrano annualmente 45 milioni di tonnellate di CO₂, che equivalgono ad appena lo 0,12% delle emissioni globali del 2022 del settore energetico: una goccia in mezzo al mare. Lo stesso Faith Birol ha dichiarato: “La storia della CCS è stata caratterizzata da grandi delusioni”.

Nello scenario sostenuto dall’OPEC e dall’industria oil&gas, “per far funzionare impianti di CCS […] servirebbero più di 26.000 TWh di energia elettrica annui, più di quanta il mondo ne ha utilizzata nel 2022”, si legge nel report IEA “The Oil and Gas Industry in Net Zero Transitions”. Inoltre, occorrerebbe un investimento annuo dedicato di 3.500 miliardi di dollari, ovvero quanto l’intero settore oil&gas ha ricavato in media negli ultimi anni. 

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Un’analisi recente dell’università di Oxford rafforza le conclusioni IEA. Secondo gli autori, “l’uso diffuso di CCS per facilitare l’uso continuativo su larga scala di combustibili fossili sarebbe economicamente dannoso”. Seguire un percorso di mitigazione net-zero con massiccio uso di CCS implicherebbe infatti un maggiore esborso di ben 30.000 miliardi di dollari da oggi al 2050, rispetto a uno con basso utilizzo di CCS. 

Quali i rischi?

L’inserimento del termine nei testi negoziali di COP28 ricorda da vicino l’esenzione europea degli e-fuel dal ban delle auto tradizionali nel 2035: si tratta di fatto di una tecnologia che, nella pratica, non avrà alcun ruolo, e lo dimostrano gli stessi piani strategici delle case automobilistiche che, di certo, non comprendono questa opzione. 

Anche se nessun esterno all’industria oil&gas investirebbe con coscienza di causa in CCS anziché, ad esempio, in rinnovabili, i rischi di inserire il termine “unebated” nella decisione finale dei negoziati sono significativi. Stanno tutti nella potenza di fuoco dell’industria oil&gas nell’indirizzare l’azione dei governi contro l’interesse stesso delle finanze pubbliche e dei cittadini. 

Il maggiore pericolo è dato dal credito e riconoscimento ufficiale, per quanto indiretto, che la posizione dell’industria oil&gas riceverebbe. Questo indebolirebbe le posizioni scientifiche nell’opinione pubblica e rafforzerebbe le attività di lobbying, spingendo gli Stati a dirottare risorse e incentivi dalla elettrificazione dei consumi, relativamente economica, ai fallimentari impianti pilota di CCS. In pratica, questo causerebbe un rallentamento della corsa delle tecnologie pulite, che stanno vincendo sul mercato ma non abbastanza velocemente.

Questa breve finestra, da qui al 2030, è l’ultima occasione per mantenere il riscaldamento globale a livelli ancora gestibili. L’IEA prevede un picco della domanda di petrolio prima del 2030, anche in assenza di ulteriori politiche climatiche: il tentativo dell’industria oil&gas, se di successo, rimanderebbe il suo inevitabile declino solamente di qualche anno, ma ci impedirebbe di vincere la battaglia del secolo.

Articolo a cura di Elisa Terenghi, fisica dell’atmosfera e volontaria di Italian Climate Network.

Immagine di copertina: UNFCCC

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