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Mar

NIGERIA: LA VITTORIA DI TINUBU NON FA BENE AL CLIMA

Un mese fa, il 25 e 26 febbraio, in Nigeria si sono tenute le elezioni presidenziali a livello federale. Dopo una campagna elettorale durata quattro mesi, il conteggio aggregato dei voti in tutti gli stati federati ha visto prevalere con il 36,61% Bola Ahmed Adekunle Tinubu (detto Bola Tinubu), già governatore dello stato di Lagos dal 1999 al 2007 e candidato nazionale per l’All Progressives Congress, partito di centro al potere dal 2015 con il Presidente uscente Buhari. 

Con un’affluenza al minimo storico del 26,71% e gli altri due contendenti, Atiku Abubakar per il Peoples Democratic Party (centrodestra) e Peter Obi per il Labour Party (laburista) attestati rispettivamente al 29,07% e 25,40%, il risultato elettorale è stato immediatamente contestato dagli avversari e questo ha creato non poca confusione nei giorni successivi alle elezioni, fino a quando la commissione elettorale nazionale ha finalmente dichiarato Tinubu nuovo Presidente il 1 marzo 2023.

Prima economia africana e Paese in esplosione demografica, già oggi abitato da oltre 230 milioni di persone, la Nigeria era senza dubbio il paese da osservare in questo inizio d’anno in termini elettorali, considerando inoltre la sua importanza nello scenario climatico. Nonostante un apparentemente risibile 0,3% in termini di emissioni di CO2 a livello globale (che la rende comunque il quarto paese africano per emissioni), l’economia nigeriana dipende pesantemente dall’industria delle fonti fossili ed in particolare da quella petrolifera. Il petrolio, infatti, è alla base dell’ 85% delle entrate nazionali da commercio con l’estero ed i proventi della vendita rappresentano ancora oggi oltre il 50% delle entrate del bilancio nazionale, facendo della Nigeria uno stato dipendente dalle fossili a tutti gli effetti. Condizione alla quale peraltro il Paese non sembra aver voluto rinunciare negli ultimi anni, visti i quasi 100 progetti nel settore oil & gas in partenza entro il 2025 ed un potenziale estrattivo imponente, soprattutto nel settore del gas naturale, che ha portato il paese ad investire in modo crescente in sussidi alle fonti fossili.

Se il peso del Paese non sembra emergere in termini di percentuale globale di emissioni di CO2, esso si fa infatti sentire a livello politico: a livello regionale nell’ECOWAS, a livello continentale in termini di scambi commerciali e dialettica politica internamente all’Unione Africana, infine, nell’ambito dei negoziati internazionali sul clima. Sotto l’Accordo di Parigi, la Nigeria ha presentato un proprio NDC (piano nazionale su mitigazione e adattamento) nel 2015, poi aggiornato nel 2021, che prevede una riduzione delle emissioni climalteranti del 20% rispetto allo scenario attuale parametrato al 2018 (“Business as usual”) entro il 2030, obiettivo migliorabile fino ad una riduzione del 47% in caso di presenza di supporto finanziario dall’estero. Obiettivo di mitigazione che, completato da una previsione di picco emissivo entro il presente decennio in presenza,     di adeguato supporto finanziario dall’estero, si innesta su una più ampia strategia di diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico. Strategia tesa in particolare ad una graduale uscita dall’iper dipendenza dal petrolio del bilancio statale, anche a valle delle poderose fluttuazioni in prezzi e volumi di scambio vissuta negli anni della pandemia.

Niente di tutto questo è tuttavia entrato nella campagna elettorale, se non nel caso di un candidato – e con dichiarazioni contrastanti. Da un’analisi sommaria dei programmi e delle dichiarazioni pubbliche dei tre principali candidati Tinubu, Abubakar e Obi, risulta che solo Obi, candidato laburista, ha affrontato il temacon il lancio di una futura “Armata Verde”, una sorta di task force nazionale incaricata di identificare ed intercettare al meglio tutte le possibili fonti di finanziamento a livello globale, per portare in Nigeria investimenti verdi in tecnologie per la transizione e creazione di posti di lavoro per i giovani, senza tuttavia meglio specificare come, quando, in che modo questa task force dovrebbe operare. Lo stesso ha poi, però,rilasciato una serie di dichiarazioni in merito alla necessità per il Paese di riappropriarsi delle proprie risorse nazionali, petrolio e gas, in un rinnovato clima di investimenti nel settore ed in particolare nel settore del gas, potenzialmente più redditizio del petrolio. 

Poco o niente più sul tema da parte degli altri candidati. Gli analisti di Green Economy Tracker hanno voluto esaminare questa campagna elettorale ancor più in profondità, in un contesto dettato da siti internet di candidati e partiti praticamente vuoti o inesistenti e serie difficoltà nel rintracciare discorsi e video sul tema dai vari canali social. La loro analisi conferma la prima lettura: quasi nessun riferimento al tema del clima e delle energie rinnovabili nella campagna elettorale, salvo sporadiche dichiarazioni di Abubakar e poche,ma più strutturate uscite di Obi. Niente, né in termini di dichiarazioni né di programma elettorale, da parte del neo-eletto Presidente federale Tinubu, che nel suo percorso ha solo vagamente menzionato gli obiettivi di neutralità carbonica al 2060 presentati dal precedente governo Buhari – e questo potrebbe non fare molto bene al clima.

Il ruolo della Nigeria nei negoziati internazionali, oltre che nelle politiche continentali, è quello di una grande economia capace di influenzare lo scenario, complice il suo peso nel foro regionale ECOWAS e le proiezioni sulla sua crescita economica e demografica negli anni a venire. Nella generica soddisfazione per un’elezione che, nonostante una bassissima affluenza e un po’ di confusione sul risultato finale, non ha visto violenze né particolari recriminazioni a livello etnico o regionale, una Nigeria non attenta al tema del clima e non orientata a decise politiche di mitigazione e diversificazione delle fonti energetiche non potrà ergersi ad attore ambizioso nello scenario internazionale, allineandosi piuttosto a quei Paesi africani che nell’ultimo anno – dall’inizio del conflitto in Ucraina – hanno assunto posizioni maggiormente attendiste ed orientate, ça va sans direalla ricerca di maggiori profitti (si pensi ai paesi europei che, come l’Italia, hanno avviato una ricerca attiva di venditori di gas per sganciarsi da Mosca) in uno scenario molto incerto ma potenzialmente, paradossalmente, ricco di opportunità. Anche se provenienti dal fossile.

Articolo a cura di Jacopo Bencini, Policy Advisor e UNFCCC contact point

Foto di copertina: britannica.com

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