ANCHE LE AZIENDE DEVONO FARE MOLTO DI PIÙ PER IL CLIMA. I DATI
Alla COP29 è stato presentato il rapporto “Hard Work Matters” voluto dal Segretario Generale ONU Antonio Guterres per fare il punto (stocktake) sull’andamento degli impegni climatici e obiettivi net-zero del settore privato. Il report è un bilancio globale dell’operato del settore privato che monitora le raccomandazioni incluse nel report “Integrity Matters”, lanciato a COP27 sempre per volontà di Guterres. Giovedì 14 novembre a Baku abbiamo seguito la tavola rotonda per presentare i risultati dell’analisi alla presenza tra gli altri del Segretario Generale Guterres e di Simon Stiell, Executive Secretary della Convenzione Quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici
Alla tavola rotonda è intervenuta Catherine McKenna, ex ministra dell’ambiente canadese nominata da Guterres a capo della task force che ha prodotto entrambi i report Integrity Matters e Hard Work Matters, eha esortato le aziende a presentarsi a COP30 in Brasile con piani di transizione trasparenti, rigorosi e ambiziosi. Ha ricordato che i governi dovrebbero rendere obbligatorio per le aziende lo sviluppo di piani di transizione e obiettivi di riduzione delle emissioni. L’Unione Europea lo sta già facendo con la nuova direttiva CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), e anche la California. McKenna ha affermato che questi piani di transizione del settore privato sono fondamentali e devono essere presenti a lato degli impegni per il clima dei Paesi stessi (gli NDCs).
L’analisi ha fatto il punto sulle diverse raccomandazioni incluse nel report “Integrity Matters” lanciato a COP27, vediamo di seguito i temi principali.
L’uscita dai combustibili fossili è troppo lenta
Aziende e investitori, Stati e città, nella maggior parte dei casi non si sono ancora impegnati ad abbandonare i combustibili fossili in tempi compatibili con gli obiettivi di temperatura dell’Accordo di Parigi.
Secondo il report, le aziende produttrici di combustibili fossili devono impegnarsi concretamente nella transizione energetica e non lo stanno facendo. Infatti, dall’Accordo di Parigi nel 2015, 57 aziende produttrici di combustibili fossili, responsabili dell’80% delle emissioni del settore hanno ampliato ulteriormente la produzione di combustibili fossili invece di ridurla. Solo il 3 per cento delle aziende del settore petrolifero o del gas (oil&gas) ha annunciato impegni per eliminare la produzione di combustibili fossili.
Il risultato allarmante è quindi che l’industria dei combustibili fossili continua a remare nella direzione opposta rispetto alla transizione. Il fatturato medio dell’industria è esorbitante e ammonta a 3,5 mila miliardi di dollari dal 2018. Ma gli investimenti nella riduzione delle emissioni (come elettricità pulita e tecnologie di cattura della CO2) hanno rappresentato meno del 5 per cento degli investimenti.
Inoltre, le 60 maggiori banche private del mondo hanno finanziato i combustibili fossili per un valore di 6,9 mila miliardi di dollari nei sette anni successivi all’adozione dell’Accordo di Parigi. E quasi la metà – 3,3 mila miliardi di dollari – sono stati destinati all’espansione dei fossili, nonostante l’Agenzia Internazionale per l’Energia abbia più volte affermato che non c’è spazio per nuovi combustibili fossili se vogliamo azzerare le emissioni nette entro il 2050.
Impressionanti anche i dati relativi ai finanziamenti pubblici che continuano ad alimentare l’industria fossile. Il Fondo Monetario Internazionale ha infatti calcolato che, solo nel 2022, i sussidi ai combustibili fossili ammontavano a 7.000 miliardi di dollari.
Queste cifre dovrebbero farci saltare sulla sedia: le somme su cui si discute in questi giorni a COP29, con negoziati semi paralizzati dalla mancanza di un accordo sulla finanza climatica, sono decisamente inferiori a quanto viene destinato ai combustibili fossili ogni anno, con soldi pubblici. I Paesi in via di sviluppo, infatti, chiedono fino a 1,3 mila miliardi di dollari all’anno.
Per concludere questo primo tema, insomma, non è più accettabile che l’eliminazione dei combustibili fossili non sia alla base di tutte le strategie aziendali e nazionali di transizione climatica, insieme a un maggiore sostegno a fonti rinnovabili ed efficienza energetica.
Obiettivi Net Zero
Nel settore privato aumentano i piani di transizione e gli impegni per ridurre o azzerare le emissioni nette, ma secondo il report solo una minima parte di questi è davvero in linea con l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di mantenere l’aumento delle temperature medie globali entro 1.5°C. In generale, gli impegni climatici sono spesso poco trasparenti: molte compagnie non hanno obiettivi intermedi e solo il 2% delle aziende divulga con trasparenza la propria strategia climatica e gli investimenti necessari per implementarla.
Anche in questo caso i Governi contano ovviamente molto: le politiche nazionali hanno infatti un enorme peso sulle strategie delle aziende, ma purtroppo spesso non richiedono obiettivi abbastanza ambiziosi e in diversi casi non fanno esplicito riferimento all’1.5°C.
Crediti di carbonio
Sono in corso molte iniziative globali per migliorare l’integrità dei crediti di carbonio nei mercati volontari. Queste iniziative prevedono che le aziende non possano utilizzare i crediti per dimostrare i progressi compiuti verso i loro obiettivi di riduzione delle loro emissioni di gas serra. Se scelgono di acquistare crediti, devono:
- scegliere crediti supervisionati da organizzazioni credibili e riconosciute internazionalmente che garantiscano che i crediti abbiano la massima integrità ambientale e portino benefici sociali ed economici nella regione in cui si svolgono i progetti;
- comunicare in modo trasparente tutte le transazioni e garantire che le informazioni siano facilmente comprensibili, coerenti e verificate;
- comunicare in modo trasparente se la mitigazione associata a un credito di carbonio possa o meno essere conteggiata ai fini dei contributi nazionali determinati (NDC) di un Paese come disciplinato dall’Accordo di Parigi.
Passiamo adesso alle brutte notizie.
Secondo il report, troppe aziende stanno usando crediti di carbonio (che in troppi casi non rappresentano una soluzione duratura alla crisi climatica) per raggiungere i loro obiettivi di riduzione delle emissioni reali. Queste aziende stanno quindi usando i crediti di carbonio come strumento per evitare di ridurre davvero le proprie emissioni di gas serra lungo tutta la loro catena del valore, cosa di cui dovrebbero occuparsi urgentemente.Come ci ricorda l’Emissions Gap Report 2024, infatti, con gli attuali impegni climatici stiamo andando dritti verso un riscaldamento globale catastrofico che porterà le temperature globali ad alzarsi fino a 2,6°C, nel corso di questo secolo.
La mancanza di trasparenza rimane il problema principale.
Solo un’azienda su 20 esclude l’uso dei crediti di carbonio per raggiungere i propri obiettivi net-zero e la stragrande maggioranza delle aziende non è chiara sullo scopo dell’utilizzo dei crediti di carbonio all’interno delle proprie strategie climatiche. Le compagnie che utilizzano i crediti di carbonio spesso non specificano alcuna condizione sul loro utilizzo, come ad esempio una “percentuale massima consentita” o “l’utilizzo esclusivo di crediti di elevata integrità ambientale”. Il che non è per nulla positivo. Il report ha inoltre rilevato che meno della metà delle aziende che usano i crediti rivela i nomi (e/o gli ID univoci) dei progetti che hanno generato i crediti di carbonio che sta utilizzando.
L’analisi ha poi trovato pochi esempi di politiche nazionali che limitano l’uso dei crediti di carbonio, indicando una grave lacuna nella definizione delle politiche per la riduzione delle emissioniMancano regole chiare e obbligatorie anche per garantire che i crediti di carbonio rispettino principi chiave quali la permanenza e l’addizionalità, avvertono gli esperti.
La protezione della natura al centro della transizione
Secondo il report, c’è un piccolo gruppo di aziende che sta iniziando a trasformare il proprio business con delle strategie credibili di ripristino della natura. Tra queste troviamo per esempio Enel, L’Occitane, Natura&Co e Orsted. Tuttavia, dopo la storica adozione del Quadro Globale per la Biodiversità Kunming-Montreal nel 2022 l’attuazione da parte dei governi e delle imprese è stata lenta: pochi Paesi hanno presentato i loro piani per la biodiversità (i cosiddetti NBSAPs), mentre le aziende stanno facendo pochissimi progressi sulla deforestazione e sugli altri obiettivi contenuti nell’Quadro Globale per la Biodiversità sono solo in fase iniziale. Ogni indicatore che traccia lo stato della natura su scala globale, intanto, mostra un declino drammatico.
Secondo il report, solo nel 2023 7.000 miliardi di dollari sono confluiti in attività dannose per la natura mentresolo 200 miliardi di dollari sostenevano soluzioni basate sulla natura.
Il settore privato deve farsi avanti, sviluppare obiettivi per la natura credibili e inserirli all’interno dei propri piani di transizione, esercitando al contempo pressioni sui governi perché promuovano la conservazione su scala e affrontino i principali fattori di perdita della natura.
Stop al greenwashing: serve aumentare la trasparenza e la responsabilità
Dal 2022 i progressi sono stati notevoli, ma un numero maggiore di governi deve muoversi rapidamente per imporre trasparenza a tutte le grandi aziende e istituzioni finanziarie e per correggere le lacune nella disponibilità di informazioni che rendono ancora difficile per il pubblico e gli investitori distinguere le azioni corrette dal greenwashing.
Attività di lobbying e advocacy
Mentre la crisi climatica e ambientale avanza, le aziende che svolgono attività di lobbying pienamente allineate all’Accordo di Parigi, emerge dal report, sono meno di una su dieci. L’industria dei combustibili fossili continua invece a finanziare attività di lobby contro la transizione, e anche per questo nell’opinione pubblica – ma spesso anche nei Governi – è difficile una chiara percezione di cosa serve fare e di quanto sia urgente.
Alla tavola rotonda, Catherine McKenna ha sottolineato che il settore privato ha gli strumenti per agire adesso e presentare i propri piani di transizione a Belem. McKenna ci ha ricordato che ogni tonnellata di CO2 conta, e che dobbiamo tutti agire adesso o i costi saranno infinitamente più alti: il nostro pianeta non può più sopportare ritardi, scuse e altro greenwashing.
Articolo a cura di Margherita Barbieri, delegata di Italian Climate Network alla COP29 di Baku
Immagine di copertina: UN Climate Change – Kiara Worth
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