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Dic

WORLD CLIMATE ACTION SUMMIT, I LEADER DEL MONDO A COP28

I primi giorni della COP28 di Dubai sono stati frenetici e ricchi di colpi di scena.  Una Conferenza delle Parti al centro di critiche fin dal suo primo annuncio, su cui pesa uno scenario geopolitico oltremodo critico e in un contesto globale in cui gli impatti del riscaldamento globale, o dell’“ebollizione globale” com’è stata definita dal Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres, sono allarmanti. 

Appare legittima la domanda: le COP, sempre più mediatiche e monumentali, servono davvero a qualcosa? In effetti qualche passo avanti, seppur lento, è stato fatto: nel 2015, anno della firma dell’Accordo di Parigi, si stimava che entro il 2030 le emissioni globali sarebbero aumentate del 16%, rispetto al 2010. Oggi la percentuale si è ridotta al +9% al 2030 sempre rispetto allo stesso anno di riferimento, il 2010. Inoltre, per quanto il processo sia imperfetto, è comunque un processo multilaterale e l’unico momento in cui 196 Paesi possono riunirsi e dialogare faccia a faccia, e in cui anche i Paesi più piccoli e vulnerabili hanno un peso negoziale

I progressi restano però altamente insufficienti e, come conferma il rapporto dell’UNEP, per mantenere viva la speranza di restare sotto la soglia di 1,5°C tutti i Paesi devono incrementare notevolmente i propri impegni climatici. Per questo è cruciale  la COP28, perché vedrà svolgersi il primo bilancio globale (Global Stocktake) dei progressi compiuti finora nel raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi. 

In uno scenario critico e con queste pessime premesse la conferenza si è però aperta con un’adozione lampo: il Fondo Loss&Damage per le perdite e i danni, nato lo scorso anno durante la COP27, ha già compiuto i primi passi  (come spiegato nell’articolo di Jacopo Bencini). Questa decisione è frutto di un enorme compromesso: i Paesi vulnerabili hanno dovuto accettare condizioni svantaggiose, su tutte la gestione temporanea del fondo presso la Banca Mondiale con tutti i rischi che ne conseguono, quali l’esacerbazione del debito già insostenibile dei Paesi meno sviluppati e il maggior potere decisionale di Paesi come gli Stati Uniti.

Una delle notizie di maggior risonanza sulla stampa italiana è stata proprio la promessa di 100 milioni per il Loss&Damage, annunciata a sorpresa dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante la prima giornata del World Climate Action Summit. Nel resto della sua dichiarazione Meloni ribadisce la necessità di una transizione ecologica pragmatica e annuncia la volontà dell’Italia di diventare un “hub” dell’energia pulita, sebbene i recenti accordi stipulati con Paesi del Nord Africa e Medio Oriente segnalino l’intenzione di puntare soprattutto sul gas.

A spiccare, in negativo, è la somma impegnata per il Fondo perdite e danni dagli Stati Uniti, 17, milioni di dollari, largamente insufficienti da parte del Paese che ha emesso di più nella storia. Il Presidente Joe Biden è uno dei grandi assenti di questa conferenza, sostituito dalla Vicepresidente Kamala Harris che ha annunciato un nuovo contributo statunitense di 3 miliardi di dollari al Fondo verde per il clima dell’UNFCCC per sostenere i Paesi in via di sviluppo nella transizione, probabilmente una mossa studiata per compensare l’esiguo contributo al Fondo perdite e danni.

L’altra pesante assenza di questa COP è quella del Presidente cinese Xi Jinping. Al suo posto, il Vice Premier e inviato speciale, Xuexiang Ding, ha ribadito il dovere dei Paesi storicamente più responsabili delle emissioni globali di aumentare il proprio sostegno finanziario ai Paesi emergenti. Il primo Paese al mondo per emissioni ritiene, infatti, che i Paesi che hanno cominciato a industrializzarsi e, di conseguenza, a emettere prima debbano guidare gli sforzi sia di mitigazione – quindi riduzione delle emissioni – che di aiuti finanziari. 

Il sostegno finanziario finora carente per aiutare i Paesi emergenti è proprio alla fonte della sfiducia del Sud globale. Sfiducia che ha creato una frattura sempre più evidente ai negoziati. I Paesi industrializzati sono accusati di un’azione climatica poco ambiziosa alla luce delle responsabilità storiche e delle risorse a loro disposizione. Critiche aspre ai Paesi occidentali sono arrivate dal Presidente brasiliano Inácio Lula da Silva, che ha sottolineato l’abisso tra i finanziamenti per l’azione climatica e le spese militari. Lula ha, inoltre, ribadito l’impegno di fermare la deforestazione in Amazzonia entro il 2030

Questa critica ha trovato eco nell’intervento del Premier indiano Narendra Modi, che ha sottolineato come il livello di ambizione dei Paesi emergenti superi quello dei più ricchi. L’India, come la Cina, spinge infatti per un riconoscimento maggiore delle responsabilità dei Paesi occidentali. Ad esempio, gli USA superano la Cina ed eclissano l’India se si parla di emissioni storiche o emissioni pro capite. Per confermare la propria ambizione, ha annunciato la volontà di ospitare COP33 nel 2028. 

Un’altra voce di denuncia è giunta da Papa Francesco, che ha dovuto rinunciare alla partecipazione su raccomandazione dei medici e ha incaricato il Segretario di Stato del Vaticano Cardinale Pietro Parolin di trasmettere il suo messaggio. Il Pontefice ha lanciato un appello a favore del condono del debito dei Paesi vulnerabili: essi pagano le conseguenze delle azioni dei più ricchi e maggiori responsabili delle emissioni, che hanno un “debito ecologico” nei loro confronti. Ha, inoltre, ribadito la necessità dell’abbandono repentino dei fossili.

Nonostante la decisione storica sul Fondo perdite e danni,  le prospettive non sono delle migliori per affrontare il solito “elefante nella stanza” di tutte le conferenze sul clima: l’abbandono dei combustibili fossili, il cosiddetto phase-out (eliminazione progressiva) che non è ancora entrato in nessun testo finale. Questione che probabilmente non troverà risoluzione neppure a questa conferenza, dati gli interessi della stessa Presidenza che sembra voler puntare sull’espansione delle energie rinnovabili e di tecnologie ancora sperimentali come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, evitando di affrontare il problema delle emissioni fossili alla fonte. Alcuni Paesi, su tutti Arabia Saudita e Russia, continuano a bloccare qualsiasi menzione del phase-out nei testi negoziali, e neppure USA e UE sembrano intenzionati ad abbandonare i fossili alla velocità richiesta dall’Accordo di Parigi.
La sfiducia nel processo è pertanto comprensibile, soprattutto da parte della società civile, data anche la partecipazione sempre più difficoltosa per gli osservatori, che vedono precluso l’accesso a tante sale negoziali. Ma gli avanzamenti sia sui temi più tecnici (non ci scordiamo l’adozione delle tabelle per la reportistica delle emissioni che entrerà in vigore entro il 2024, grande risultato di COP26), sia sui temi più ostici come l’adozione del Fondo, dimostrano che è ancora possibile appianare le divergenze per arrivare a soluzioni comuni. In questo senso proprio le associazioni non governative come Italian Climate Network svolgono un ruolo chiave: è vitale proseguire l’azione di advocacy per fare pressione sui governi, nella speranza di vedere un giorno anche abbattuto quest’ultimo tabù del phase-out nei testi negoziali.

Articolo a cura di Teresa Giuffrè, delegata di Italian Climate Network a COP28.

Immagine di copertina: UNFCCC.

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