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GLOBAL STOCKTAKE: CONCILIAZIONE IMPOSSIBILE?

L’evento centrale di COP28 è senza dubbio il primo Global Stocktake, bilancio dei progressi compiuti verso il raggiungimento dell’Accordo di Parigi. Oltre a presentare i progressi avvenuti finora, il bilancio dovrà anche dare indicazioni ai Paesi per aggiornare i propri impegni su tutti i rami dell’Accordo di Parigi: mitigazione, adattamento e mezzi di attuazione (incluso il sostegno finanziario). Pertanto, è evidente che il contenuto della decisione finale che emergerà da questa COP influenzerà sensibilmente il livello di ambizione che ci si aspetterà dai Paesi.

Come prevedibile, negoziare sul contenuto di un testo cruciale e onnicomprensivo è una sfida enorme, che ha visto emergere – già durante i negoziati intermedi a Bonn – quel divario tra Nord e Sud globale che si è acuito sempre più in questi anni fino a portare a una vera e propria spaccatura in molte posizioni. 

La speranza della società civile e dei Paesi più vulnerabili, come i piccoli Stati insulari e i Paesi meno sviluppati, è quella di un testo finale bilanciato, che sottolinei le responsabilità di tutti i maggiori emettitori globali e preveda un aggiornamento – in linea con l’Accordo di Parigi –  sia degli NDC, che degli obiettivi di finanza climatica. L’attuale sostegno finanziario è infatti ritenuto oltremodo insufficiente, e le mancate promesse dei Paesi più ricchi sono alla base dell’attuale disillusione dei Paesi del Sud globale. 

I grandi Paesi emergenti, come Cina e India, vorrebbero piuttosto che il bilancio mettesse in luce le responsabilità storiche dei Paesi occidentali industrializzati. Nonostante il bilancio avvenga nel quadro dell’Accordo di Parigi, essi ritengono che qualsiasi analisi debba necessariamente considerare come si è giunti all’attuale concentrazione di gas serra nell’atmosfera. Larga parte della responsabilità ricade, dunque, sui Paesi che hanno cominciato a industrializzarsi prima e sul loro fallimento nel ridurre le emissioni ben prima dell’Accordo. 

Della stessa posizione, con una buona dose di opportunismo, sono i grandi produttori ed esportatori di idrocarburi come l’Arabia Saudita e la Russia. Come prevedibile, questi respingono anche i riferimenti all’abbandono delle fonti fossili nel testo, sottolineando che il bilancio debba evitare target che abbiano un focus specifico su un determinato settore o target globali di riduzione delle emissioni. Gli NDC andrebbero adattati alle esigenze del singolo Paese, riflettendo il principio delle responsabilità comuni, ma differenziate e delle rispettive capacità. Altrettanto prevedibile è il loro sostegno per nuove tecnologie quali la cattura e lo stoccaggio del carbonio. 

Tuttavia, queste soluzioni sperimentali non sono osteggiate neppure da Stati Uniti e Unione Europea, che pur premendo per un phase-out di tutti i fossili, preferirebbero l’aggiunta del termine unabated, che apre la possibilità a ulteriori emissioni teoricamente recuperate in altro modo. Un inserimento ovviamente pericoloso, in quanto lascerebbe spazio a scappatoie. Questa posizione ci ricorda che neppure i Paesi più ricchi sembrano del tutto pronti ad abbandonare le fonti fossili, e continuano anzi ad approvare nuovi progetti per l’esplorazione e la produzione di idrocarburi o siglare accordi per la loro importazione. Questi Paesi osteggiano, tra l’altro, un testo che li esorti a guidare gli sforzi di mitigazione e il sostegno finanziario; al di là delle responsabilità storiche dietro alle emissioni accumulatesi finora, non si possono più ignorare le emissioni crescenti di Cina o India. E, d’altra parte, l’Accordo di Parigi rappresenterebbe il superamento della divisione tra Paesi sviluppati/in via di sviluppo della Convenzione, esortando invece allo sforzo collettivo di tutti.

Probabilmente è proprio per far avanzare i lavori il più speditamente possibile che la Presidenza ha deciso di far partire dei negoziati sul Global Stocktake già in questi primi giorni di apertura, in corrispondenza con il Summit dei Leader, che solitamente è il momento più calmo dal punto di vista negoziale.

L’ultima bozza di testo emersa finora non fa che confermare quanto sia difficile trovare un compromesso tra tante voci contrastanti. Attualmente essa include tutte le opzioni possibili, ad esempio tra phase-out o phase-down di tutti i fossili, o solo di quelli unabated, o solo del carbone; o tra uno sguardo pre-2020 e dunque sui fallimenti dei Paesi industrializzati, o post-2020 con una visione d’insieme delle responsabilità di tutti.

Conciliare punti di vista tanto divergenti sarà dunque un test per la Presidenza emiratina, che ha peraltro dato prova di abilità diplomatiche già all’apertura della conferenza, mediando tra le diverse parti e spingendole a giungere a un compromesso sulla storica messa in opera del Fondo per le perdite e i danni. Tuttavia, gli Emirati sono un mediatore tutto fuorché imparziale e vi sono forti dubbi sulla loro capacità di spingere per una decisione che includa davvero la maggiore ambizione possibile, soprattutto in materia di abbandono dei fossili. In questo senso, i primi segnali non sono confortanti: su tutte, la recente notizia secondo cui proprio la Presidenza avesse intenzione di sfruttare la COP per siglare nuovi accordi di idrocarburi.  

Articolo a cura di Teresa Giuffrè, delegata di Italian Climate Network a COP28.

Foto di copertina: UNFCCC

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