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Dic

COP28: UPSETTING ARTICOLO 6 E I MERCATI DEL CARBONIO

  • La Bolivia chiede la moratoria del funzionamento dei meccanismi di mercato del carbonio.
  • Cosa sono i mercati del carbonio , in sintesi.
  • Perché sono una soluzione controversa per molti Paesi.

Venerdì è iniziata la seconda settimana di COP28 e così i relativi negoziati. Tra i punti ancora oggetto di discussione l’immancabile Articolo 6 dell’Accordo di Parigi, che riguarda i cosiddetti meccanismi del mercato di carbonio. In particolare, l’attenzione ruota attorno ai testi complicatissimi e tecnicissimi, anche per i più veterani, dell’Articolo 6.2 e dell’Articolo 6.4. 

All’interno di questi negoziati (in particolare, di Articolo 6.4) è stata accolta con grande fragore da parte delle popolazioni indigene la notizia che la Bolivia abbia avanzato la richiesta di una moratoria e la cessazione delle funzioni dei mercati di carbonio degli Articoli 6.2. e 6.4 mettendo sul tavolo delle opzioni per porvi fine (Opzione 2, Annex II del testo). In particolare, chiedono maggiori progressi su Articolo 6.8. in materia di approcci non di mercato.
Ma perché avanzare una richiesta così drastica? Proviamo a rispondere.

Io do un bene a te e tu ne dai uno a me, di eguale valore, e siamo entrambi felici.
Questa approssimativamente la storiella che tutti conosciamo sullo scambio di beni nel mercato e che ha ispirato il meccanismo del mercato del carbonio. L’articolo 6 dell’Accordo di Parigi prevede infatti che le emissioni di carbonio possano essere ‘volontariamente scambiate’ sul mercato. Dietro la promessa di investimenti in progetti green e di sviluppo dei Paesi più vulnerabili, i Paesi Sviluppati ottengono la possibilità di contare la riduzione di emissioni ottenuta altrove nei propri NDCs, gli obiettivi climatici nazionali.

Dalla ratifica dell’Accordo di Parigi si è assistito ad un crescente interesse nel settore, una vera e propria febbre da mercato del carbonio. Il Regno Unito al punto 10 del piano per la propria Rivoluzione Industriale Verde (Green industrial Revolution) afferma di volersi affermare come leader nel settore del mercato di carbonio al fine di generare finanza verde e realizzare l’obiettivo del Net Zero, l’azzeramento delle emissioni nette. Con la proliferazione degli Emission Trading Scheme (ETS), anche colossi finanziari come BlackRock hanno iniziato a interessarsi a questo tipo di investimenti, spesso sotto forma di Environmental, Social and Governance (ESG) Investments. Questi meccanismi, richiesti dai Paesi Sviluppati in nome della ‘flessibilità’ delle azioni climatiche, possono tuttavia portare a pratiche di dubbia eticità

In primo luogo, con la trasformazione del carbonio in commodity da scambiare sul mercato come un qualsiasi bene, questi meccanismi hanno ‘finanziarizzato la natura’ applicandovi logiche che non le sono proprie. 
La piantumazione di qualche ettaro di foresta o la ristorazione di qualche habitat non possono essere considerati come paragonabili alla possibilità di continuare ad inquinare e non tengono conto del fatto che la natura non funziona secondo meccanismi di mercato. L’attuale crisi climatica ed ecologica ci ricorda che la natura si fonda su fragili equilibri e che non è in grado di rigenerarsi con i ritmi e le logiche che vorremmo, men che meno quelle del mercato.

In secondo luogo, questi meccanismi possono risultare inefficaci e distrattivi.
Un’inchiesta del Guardian ha rivelato che circa il 94% dei crediti maturati dalle big corporation dei Paesi Sviluppati per progetti di riforestazione in Paesi in Via di Sviluppo (REDD+ projects) non si sono accompagnati alla riduzione della CO2 in atmosfera. Nonostante queste evidenze, gli investimenti nel settore continuano al grido della raggiungibilità dell’obiettivo del Net Zero, che tuttavia distrae da quello che dovrebbe essere il principale obiettivo dell’Accordo di Parigi, la mitigazione accompagnata dal phase out completo dai combustibili fossili. 

In terzo luogo, gli studi – che partono da molto lontano e da cui il presente articolo ha tratto ispirazione nella formulazione del titolo (Upsetting the offset di Böhm&Dabhi 2009) – mostrano che questi meccanismi possono avere impatti socio-economici negativi ed essere accompagnati a possibili violazioni dei diritti umani là dove invece nelle intenzioni dovrebbero portare sviluppo, sostenibilità ed emancipazione. 

Noto alle cronache è il report di Survival International, la ONG per i diritti dei popoli indigeni, che ha denunciato gli sfratti illegali delle popolazioni indigene Ogiek del Kenya dalla foresta di Mau per fare strada a progetti di riforestazione a fronte della cessione dei relativi crediti di carbonio.
Simili pratiche sono state confermate dal Guardian rispetto ad alcuni progetti in Perù, che hanno visto lo sgombero forzato delle popolazioni indigene senza che queste venissero consultate o inserite nei processi decisionali riguardanti le loro terre. Maria Hengeveld, ricercatrice e giornalista, ha inoltre denunciato come il progetto Kasigau Corridor REDD realizzato dalla società americana Wildlife Works e volto allo sviluppo e alla emancipazione di donne e ragazze del luogo si sia tradotto invece in abusi e violenze sessuali sulle donne indigene.

A garantire tali pratiche sono sistemi di auditing e di certificazioni di fatto non regolati, oltre che ben poco trasparenti ed inclusivi, affidati a enti privati tendenzialmente portati ad assecondare le richieste dei propri clienti, dice Maria Hengeveld. Ma soprattutto queste attività replicano dinamiche neo-colonialiste e neo-liberiste di espropriazione e sfruttamento dei Paesi vulnerabili che impediscono nei fatti il loro equo e sostenibile sviluppo11, come emerso anche in questo side event organizzato dal ActionAid a COP28.

Probabilmente la proposta della Bolivia cadrà nel nulla e i mercati del carbonio continueranno ad essere sviluppati sotto l’Accordo di Parigi. Per questo, come dice Ghazali Ohorella, Team Leader del Forum delle Popolazioni Indigene e Membro del relativo caucus all’UNFCCC, è meglio continuare a partecipare al processo per porre rimedio ed evitare che le cose peggiorino: “se non sei seduto al tavolo sei sul menù”!

Questo significa, dicono all’unisono le speaker del side event menzionato, continuare a pressare i delegati durante COP28 perché il testo dell’Articolo 6 includa chiari e vincolanti riferimenti alla tutela dei diritti umani, alla sovranità alimentare e al ruolo centrale della partecipazione nei processi decisionali, soprattutto delle persone indigene, affinché diventino i parametri di lavoro e di giudizio dei meccanismi del mercato del carbonio. Al momento i diritti umani sono citati solo nel preambolo dei testi che non sono vincolanti, mentre il testo dell’Articolo 6.4 non include riferimenti espliciti al fatto che l’implementazione dei progetti di carbon market sia avviata solo previa messa a terra dei relativi meccanismi di conformità e di reclamo (grievance mechanism).

Quel che è certo, però, è che la proposta della Bolivia, tra i Paesi dove risiedono comunità di popolazioni indigene, ci riporta alla realtà eci mette di fronte a una necessaria autocritica e rivalutazione di questi meccanismi e delle logiche di mercato che li sottendono, e che pervadono ogni discorso dell’azione climatica. È arrivato il momento di ripensare radicalmente la nostra visione del mondo, in una prospettiva de-colonizzata, e di abbracciare un modello di sviluppo più equo, inclusivo e sostenibile. Un vero e proprio cambio di paradigma che pone al centro il pianeta e le persone e non il business, come propone Deva Surya, lo UN Special Rapporteur sul diritto umano allo sviluppo.

Fonte: estratto dal Report dello Special Rapporteur Deva Surya

Sembra che alcuni passi li stiamo facendo, come nel riconoscimento del ruolo prominente della natura in questa COP28 (ne abbiamo parlato qui) o l’iniziativa per un Trattato di Non-proliferazione dei Carboni Fossili, ma siamo solo all’inizio ed è già fin troppo tardi.

Articolo a cura di Erika Moranduzzo, esperta di Diritti Umani e Coordinatrice della Sezione ‘Diritti e Clima’ a Italian Climate Network.

Immagine di copertina: foto di Matthias Heyde su Unsplash.

  1. Steffen Böhm and Sian Sullivan (eds), Negotiating Climate Change in Crisis (Open Book Publishers 2021) capitolo introduttivo, sezione ‘Three Decades of Carbon Fetishism’. ↩︎

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