FINANZA CLIMATICA, SU NCQG OGNI PAROLA CONTA
In queste ore sono attesi aggiornamenti dalle negoziazioni di COP29 per la definizione del nuovo obiettivo di finanza climatica. Ne approfittiamo quindi per prendere un momento e analizzare in modo più approfondito alcuni aspetti del documento negoziale risultato dai lavori della scorsa settimana. Infatti, per un buon NCQG non conta solo la quantità, ma anche la qualità.
Necessità dei Paesi in via di sviluppo
Il testo negoziale identifica i bisogni finanziari dei Paesi in via sviluppo pari 5000-6900 miliardi di dollari fino al 2030, sulla base di quanto indicato nei loro piani climatici (Nationally Determined Contributions – NDCs).
Dividendo questa cifra per i 10-15 anni a cui essi si riferiscono, si ottiene un valore attualizzato pari a 455-584 miliardi di dollari l’anno da ora al 2030. Bisogna considerare che questa cifra, come anche indicato nel testo, risulta molto sottostimata rispetto alle reali necessità dei Paesi. Fonti differenti sono infatti molto più generose nel quantificarle.
Ecco alcuni numeri di riferimento:
- 1500 miliardi di dollari l’anno nel 2029 da fonti esterne ai Paesi in via di sviluppo, di cui 1200 miliardi l’anno in investimenti per mitigazione e adattamento e $300 miliardi per le perdite e i danni economici legati ai cambiamenti climatici.
- 1000 miliardi all’anno entro il 2030 da fonti esterne per i Paesi in via di sviluppo, eccetto la Cina, destinati a coprire una quota dei $2400 miliardi all’anno necessari ($1600 nella transizione energetica, $250 per adattamento e resilienza, $250 miliardi per perdite e danni).
- 215-387 miliardi all’anno fino al 2030 solo per l’adattamento nei Paesi in via di sviluppo.
Allocazione delle risorse
L’ultimo report dello Standing Committee on Finance mostra come la finanza climatica globale sia aumentata del 63% nel 2021-2022 rispetto al biennio 2019-2020, raggiungendo i 1.300 miliardi di dollari all’anno. È stata per lo più indirizzata alla mitigazione, in particolare su energia pulita, trasporti, edifici ed infrastrutture. La finanza per l’adattamento è stata pari solamente all’11% del totale (63 miliardi di dollari annui), di cui 28 miliardi sono andati ai Paesi in via di sviluppo, contro i 215-387 miliardi che servirebbero ogni anno. I frequenti riferimenti nel testo negoziale alla necessità di raggiungere un bilanciamento tra finanza per mitigazione e adattamento nel NCQG si riferiscono quindi a questo squilibrio.
Oltre a un problema di allocazione delle risorse per obiettivo, è presente anche una diseguaglianza nella suddivisione delle stesse tra regioni. Analizzando la finanza climatica internazionale, si può vedere come, nel 2022, essa si sia concentrata per lo più nelle regioni di America Latina-Caraibi (28%) e in Asia Centrale-Europa dell’Est (16%). Il 14% è andato sia ai Paesi del Sud dell’Asia, che dell’Africa Sub-sahariana, mentre la quota minore di risorse (10%) è stata allocata nelle regioni di Medio Oriente-Nord Africa e dell’Asia Orientale.
Figura – Allocazione della finanza climatica internazionale per regione nei Paesi in via di sviluppo, eccetto LDCs – rielaborazione personale sulla base dei dati del Global Landscape of Climate Finance 2024 di CPI
Se consideriamo che le risorse finanziarie per i Paesi in via di sviluppo eccetto la Cina sono state scarse (solo il 15% della finanza climatica globale) capiamo perché in sala varie delegazioni insistono sulla rilevanza di inserire nel testo finale NCQG il riferimento a un’equa suddivisione regionale.
I Paesi meno sviluppati (Least Developing Countries – LDC) e le piccole isole in via di sviluppo (Small Islands Developing States – SIDS) sono le categorie più vulnerabili e impattate dagli effetti dei cambiamenti climatici e per questo hanno bisogno di garanzie particolari. Eppure solo il 2.6% delle risorse finanziarie sono andate ai primi (33 miliardi di dollari) e appena l’1% ai secondi (13 miliardi). In risposta alla situazione attuale, i diretti interessati propongono diciture specifiche da inserire nel testo riguardo le loro necessità, e un limite minimo di allocazione -220 miliardi di dollari all’anno per i Paesi meno sviluppati, 39 miliardi all’anno per i piccoli stati insulari.
Qualità delle risorse
Più della metà della finanza climatica globale nel 2021-2022 è stata elargita sotto forma di strumenti a debito, con le concessioni che hanno rappresentato solo il 6% del totale. I prestiti sono stati il 59%, divisi in 88% a tasso di mercato e 12% confessionali.
Considerando solo la finanza pubblica dai Paesi sviluppati ai Paesi in via di sviluppo, essa è stata elargita per il 69% sotto forma di prestiti e per il 28% di concessioni.
Alla predominanza dei prestiti si aggiunge l’alto tasso di non concessionalità: in termini di concessioni equivalenti (grant-equivalent), cioè la differenza tra il prestito e i rimborsi ottenuti nel corso della sua durata, i 115.9 miliardi di dollari mobilitati dai Paesi sviluppati per i Paesi in via di sviluppo nel 2022 si trasformano in solo 28-35 miliardi. La richiesta nel testo negoziale di calcolare il nuovo NCQG in termini di concessioni equivalenti vuole quindi evitare di conteggiare come risorse mobilitate anche quelle che dovranno essere restituite sotto forma di debito.
Debito
A causa della crescita del debito pubblico, tra i Paesi in via di sviluppo uno su tre spende più per ripagare i propri interessi che per i settori di salute, educazione e cambiamenti climatici.
Questa situazione limita la capacità dei Paesi più vulnerabili di svilupparsi, oltre che di realizzare un’azione climatica ambiziosa e di adattarsi agli effetti dei cambiamenti climatici, esacerbando ulteriormente le perdite e i danni che si trovano ad affrontare.
Due spinte principali rischiano di portare la situazione al limite. Da un lato, eventi climatici estremi sempre più frequenti e intensi aumentano il debito dei Paesi in via di sviluppo, che hanno poche opzioni se non accettare prestiti ad alti tassi di interesse per la propria ricostruzione: da qui l’importanza di finanziare adeguatamente il Fondo per le perdite e i danni, di cui abbiamo parlato a questo link). Dall’altro, l’attuale paradigma della finanza climatica, così incentrato sui prestiti, contribuisce a creare ulteriore debito, piuttosto che fornire un modo per alleviarlo.
Se non adeguatamente supportati, i Paesi in via di sviluppo possono trovarsi costretti a investire sulle proprie risorse fossili interne per generare reddito con cui ripagare gli interessi, creando un circolo vizioso tra continuo aumento delle temperature e maggiori costi necessari ad affrontarlo. Possibili soluzioni vengono proposte nel testo negoziale:
- un generale aumento delle risorse finanziarie per rispondere alle necessità dei Paesi in via di sviluppo;
- una maggiore, se non totale, presenza di risorse finanziarie che non creano debito;
- l’inserimento di un obiettivo specifico per le perdite e i danni nel NCQG;
- l’introduzione di clausole nei contratti per permettere ai Paesi di sospendere il pagamento del debito per un periodo di tempo dopo un evento climatico estremo;
- l’analisi della condizione del debito per le modalità di erogazione della finanza climatica;
- la cancellazione del debito.
Addizionalità
L’articolo 4.3 della Convenzione specifica che i Paesi sviluppati devono fornire risorse finanziarie nuove e addizionali per supportare l’ambizione dei Paesi in via di sviluppo. Il riferimento all’addizionalità è stato poi abbandonato nell’Accordo di Parigi, anche se l’Articolo 9.3 indica che la mobilitazione delle risorse finanziarie dovrebbe rappresentare una progressione rispetto agli impegni passati. Nel testo negoziale, ora, si ritrovano proposte per riprendere il linguaggio della Convenzione.
Come spesso accade, non esiste una definizione accettata tra le Parti di addizionalità, né delle metodologie per calcolarla. Generalmente si intendono addizionali le risorse finanziarie mobilitate al di là di precedenti impegni. Il tema è particolarmente rilevante perché, secondo un’analisi condotta da CARE Climate Change, dei 295 miliardi di dollari di finanza climatica forniti tra il 2011 e il 2020, solo 20 miliardi sono stati addizionali all’impegno del nord del mondo di devolvere lo 0.7% annuo del loro reddito nazionale lordo per lo sviluppo del sud. Introdurre la dicitura di addizionalità nel testo NCQG, quindi, è particolarmente importante per assicurare che le risorse finanziarie siano nuove e aggiuntive a quelle necessarie per lo sviluppo dei Paesi più vulnerabili.
Accesso
L’attuale architettura della finanza climatica è complessa. I fondi possono arrivare attraverso una serie di canali differenti, multilaterali, bilaterali o regionali, all’interno o all’esterno del meccanismo finanziario definito dalla Convenzione.
I principali canali sono:
- Il Global Environment Facility (GEF), fondo stabilito direttamente nel 1991 per assistere nella protezione dell’ambiente e promuovere uno sviluppo sostenibile. Si focalizza su sei aree tematiche: biodiversità, sostanze chimiche e rifiuti, cambiamenti climatici (mitigazione e adattamento), acque internazionali, degradazione di suolo e gestione sostenibile delle foreste. Amministra anche il Least Developed Countries Fund (LDCF) e lo Special Climate Change Fund (SCCF), destinati a supportare i Paesi in via di sviluppo nella definizione e implementazione del loro piano nazionale di adattamento (National Adaptation plan). È sotto UNFCCC.
- L’Adaptation Fund, sotto UNFCCC, focalizzato nell’aiutare i Paesi in via di sviluppo ad adattarsi ai cambiamenti climatici. Con l’implementazione dell’Art.6.4, riceverà il 5% of the share of proceeds per la vendita dei crediti di emissioni (ne abbiamo parlato qui).
- Il Green Climate Fund (GCF), approvato nel 2015, serve a dare supporto ai Paesi vulnerabili per uno sviluppo resiliente e a basse emissioni, avendo focus sia su mitigazione che su adattamento. È il più grande fondo multilaterale ed è sotto UNFCCC.
- Il nascente Fund for responding to Loss and Damage (FRLD), è stato formalizzato a COP28 con l’obiettivo di aiutare i Paesi in via di sviluppo particolarmente vulnerabili agli effetti del cambiamenti climatici a rispondere alle perdite e i danni, economici e non.
- I Climate Investment Funds (CIFs), creati nel 2008 e amministrati dalla Banca Mondiale, gestiscono una serie di interventi specifici per aiutare nello sviluppo dei Paesi vulnerabili. Alcune aree tematiche: aumentare le energie rinnovabili e accelerare la transizione dal carbone in Paesi particolarmente dipendenti.
- Le banche multilaterali di sviluppo, hanno l’obiettivo di accelerare il progresso economico e sociale nei Paesi in via di sviluppo. Molte di esse hanno incluso il cambiamenti climatici come punto fondamentale della loro agenda.
- La finanza bilaterale, cioè tra due Paesi, gestita attraverso fondi o agenzie per lo sviluppo.
- I canali e i fondi regionali, istituiti per obiettivi nazionali e regionali. Un esempio è l’Amazon Fund, fondo brasiliano, per prevenire la deforestazione nell’Amazzonia.
A un’architettura finanziaria molto complessa e frammentata, si sommano una serie di problematiche che riducono l’accesso dei Paesi in via di sviluppo alle risorse finanziarie.
Alcuni dei meccanismi di finanziamento esistenti, come l’Adaptation Fund, il Global Environment Fund e il Green Climate Fund, presentano complessità notevoli nelle procedure di accesso, altamente burocratizzate e decentrate e quindi incapaci di cogliere le necessità e le istanze delle comunità. Quasi sempre le sessioni informative sono in inglese, una lingua poco accessibile per le comunità indigene, e spesso vengono elargite con strumenti digitali, che richiedono mezzi tecnologici non sempre presenti. Nel tempo, questi limiti hanno favorito per lo più le grandi organizzazioni che, per possibilità di risorse e mezzi, sono in grado di venire incontro alle richieste procedurali dei fondi.
Alcuni meccanismi finanziari, inoltre, richiedono un contributo iniziale da parte dell’organizzazione richiedente, oltre che garanzie finanziarie, bilanci periodici e audit, condizioni che le piccole organizzazioni difficilmente riescono a soddisfare. Questo, quindi, svantaggia ulteriormente le organizzazioni più piccole e locali, che però sono in prima linea nell’affrontare gli eventi climatici e hanno bisogno di maggiore supporto.
Le architetture attuali falliscono nel considerare le disuguaglianze presenti nelle comunità afflitte. Ad esempio le donne, spesso marginalizzate all’interno della propria comunità a causa di norme sociali di genere, non hanno accesso ai processi decisionali oltre che a mezzi per rafforzare la propria posizione o ai diritti di proprietà su beni o risorse finanziarie, e di fatto diventa impossibile, per loro, fornire le garanzie per ottenere le risorse finanziarie.
Ulteriore punto è che la finanza tende a essere meno accessibile in contesti a rischio, come in situazioni di guerra, insicurezza o più in generale di fragilità, a causa dell’alto tasso di rischio associato. Intere aree geografiche, che sono già altamente vulnerabili e richiederebbero più attenzione, risultano marginalizzate per i potenziali elevati costi di implementazione e per la sostenibilità dell’investimento. Un meccanismo di accesso diretto verso le comunità locali e indigene permetterebbe di aumentare la finanza climatica.
È quindi fondamentale che il testo negoziale finale rifletta un linguaggio basato sui principi e sui valori dei diritti umani, elementi basilari per la protezione ambientale e sociale. L’integrazione di questo linguaggio si traduce in ricadute sociali reali, generando delle garanzie per tutte le comunità oppresse.
Articolo a cura di Claudia Concaro, delegata di Italian Climate Network alla COP29 di Baku
Immagine di copertina: foto di UN Climate Change – Kiara Worth
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