LA CAUSA DEL SECOLO – L’ANALISI DEL PARERE CONSULTIVO DELLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA
Come annunciato sui nostri canali, il 23 luglio 2025 la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ o Corte) ha emesso il proprio parere consultivo sugli obblighi legali degli Stati nel contesto della crisi climatica alla luce del diritto internazionale.
Il parere, approvato all’unanimità dai 15 giudici della ICJ, si articola in un’approfondita disamina (140 pagine) dei due quesiti giuridici posti dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (ne avevamo parlato qui) e nella formulazione di una risposta chiara, netta e inequivocabile.
La crisi climatica è un “problema esistenziale di proporzioni planetarie che mette a rischio tutte le forme di vita e la salute del nostro pianeta” (para 456). Per questo motivo, ha dichiarato l’ICJ, gli Stati hanno obblighi legali stringenti nel prevenire danni significativi all’ambiente causati dalle emissioni, anche attraverso la regolazione del settore privato, e devono cooperare a livello internazionale per affrontare la crisi climatica, ognuno secondo le sue responsabilità storiche e capacità, oltre a provvedere a porre rimedio alle violazioni di tali obblighi.
La decisione è storica – non a caso l’abbiamo definita la causa del secolo -, e segna il passaggio a una nuova era, un’era in cui gli Stati non possono più tirarsi indietro nella lotta ai cambiamenti climatici e che pone fine alla loro impunità in caso di violazione degli obblighi climatici. Ricordiamo che il presente parere segue un altrettanto importante pronunciamento, quello della Corte Inter-Americana per i diritti dell’uomo (AO 32/25) chiamata a esprimersi su questioni simili.
Ma ora vediamo insieme più nel dettaglio i punti principali del parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia: il parere è unico ed irripetibile. Per comodità, l’analisi seguirà lo stesso ordine del parere dell’ICJ.
I 2 quesiti giuridici posti alla Corte Internazionale di Giustizia:
- Quali sono gli obblighi degli Stati ai sensi del diritto internazionale in materia di lotta ai cambiamenti climatici?
- Quali sono le conseguenze legali in caso di violazione di tali obblighi – con riferimento specifico ai danni subiti dagli Stati in via di Sviluppo, in particolare quelli insulari, e dalle persone, sia quelle presenti sia quelle delle future generazioni?
1. Gli obblighi climatici degli Stati alla luce del diritto internazionale
1.1 Il quadro normativo di riferimento
Va in primo luogo rilevato che, nella vastità delle norme internazionali esistenti, l’ICJ – chiamata a chiarire quali siano gli obblighi degli Stati nel contesto della crisi climatica – ha preferito confinare la propria analisi alla normativa internazionale più direttamente rilevante (‘most directly relevant applicable law’) (para 114). Questo non significa escludere la potenziale applicazione di altre norme del diritto internazionale. Semplicemente, la Corte “sceglie” di focalizzarsi su quelli che ritiene essere i principali obblighi internazionali che regolano la risposta globale al cambiamento climatico.
Tra i principali strumenti giuridici, l’ICJ identifica: la Carta delle Nazioni Unite, che sancisce l’importanza della cooperazione tra Stati nella risoluzione di problemi globali come i cambiamenti climatici; i tre trattati sul clima – la Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico (UNFCCC), il Protocollo di Kyoto e l’Accordo di Parigi -; altri trattati internazionali di diritto ambientale (la Convenzione sul Diritto del Mare, sulla Biodiversità, sull’Ozono e sulla Desertificazione); il diritto internazionale consuetudinario (in particolare, il dovere di prevenire danni significativi all’ambiente e il dovere di cooperare per la tutela dell’ambiente); i trattati internazionali in materia di diritti umani.
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L’ICJ identifica anche quelli che definisce “principi guida”, che per la loro trasversalità aiutano a interpretare la normativa più direttamente rilevante. In particolare, rilevano:
- il principio dello sviluppo sostenibile volto a conciliare lo sviluppo economico con la protezione dell’ambiente;
- il principio delle responsabilità comuni ma differenziate e rispettive capacità (CBDR-RC) che afferma la necessità di distribuire equamente i costi relativi ai danni ambientali tenendo conto delle responsabilità correnti e storiche degli Stati e il loro grado di ricchezza;
- il principio di equità che riflette un’esigenza di giustizia sociale e climatica nella lotta al cambiamento climatico;
- il principio di equità inter-generazionale che riflette il diritto delle future generazioni di godere del pianeta e delle sue risorse,
- il principio di precauzione che impone di agire anche quando la scienza non è certa al 100% del rischio di danno ambientale.
Sorprende che il principio secondo cui “chi inquina paga” (polluter pays principle) – un principio cardine del diritto ambientale – non sia stato ritenuto rilevante nel contesto dei cambiamenti climatici. L’ICJ afferma infatti che lo stesso non è previsto o riflesso in nessuno dei trattati sul clima e che gli Stati non sembrano aver accettato neppure una sua applicazione implicita (para 160). Tuttavia, come ben rilevato dal giudice Bhandari nella sua opinione separata, il fatto di non avere integrato tale principio nel quadro normativo di riferimento, è stata un’opportunità mancata di rafforzare i meccanismi di responsabilità degli Stati, essenziali per far fronte ai cambiamenti climatici.
1.2 Lex specialis e altre questioni controverse
Prima di entrare nel vivo degli obblighi climatici degli Stati, ovvero di quelle obbligazioni internazionali che se violate determinano un illecito internazionale passibile di sanzione, è importante chiarire alcuni punti. La Corte Internazionale di Giustizia ha infatti deciso di sfatare alcuni miti che hanno fatto discutere per anni gli esperti, e che sono anche stati la base per le argomentazioni di alcuni Stati volte a limitare l’ambito di indagine della Corte o a contestare l’obbligatorietà (e quindi responsabilità) delle norme internazionali in materia di crisi climatica.
Con riferimento alla tesi secondo cui la Corte sarebbe tenuta a focalizzarsi esclusivamente sui trattati sul clima in quanto normativa di settore (i.e. lex specialis) – per lo più espressa da Stati Uniti d’America, Arabia Saudita e Giappone -, la ICJ ha precisato che quando esistono più norme che disciplinano una stessa questione, queste devono essere interpretate in modo tale da dar luogo a un unico insieme di obblighi compatibili. Poiché i trattati sul clima, così come le norme internazionali consuetudinarie o i diritti umani, contribuiscono tutti a modo loro allo stesso obiettivo, i trattati sul clima non prevalgono e non sostituiscono le altre normative concorrenti. Al contrario, ogni norma rafforza vicendevolmente l’altra.
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La Corte ha anche chiarito che molte delle disposizioni stabilite nei trattati sul clima sono obblighi di natura vincolante e piuttosto stringenti nel loro contenuto a differenza di quanto sostenuto da USA, Paesi Nord-Europei (Nordic countries), Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC) e Arabia Saudita. Anche le decisioni delle COP sul clima, in base alla loro formulazione, possono avere carattere vincolante per gli Stati membri, oltre a essere rilevanti per l’interpretazione del quadro normativo di riferimento sui cambiamenti climatici.
La Corte Internazionale di Giustizia ha precisato inoltre che le norme di diritto consuetudinario si applicano a tutti gli Stati, e quindi anche a chi non è parte dei trattati sul clima. In particolare l’ICJ afferma che “se uno Stato non-parte dei trattati sul clima coopera con la comunità degli Stati parte dei trattati sul clima”, quello Stato non-parte può essere considerato alla stregua degli Stati che fanno parte dei trattati sul clima, se la sua condotta è ripetuta e costante tale da rendere quell’obbligazione una norma di diritto consuetudinario (para 315). Di conseguenza, uno Stato non-parte può essere chiamato a rispondere per illecito internazionale in caso di violazione dei suoi obblighi internazionali sul clima. Questo chiarimento pare rivolto agli Stati Uniti d’America la cui uscita dagli accordi sul clima potrebbe, difatti, non assolverli dai loro obblighi climatici.
Infine l’ICJ si sofferma sul principio di CBDR-RC, le responsabilità comuni ma differenziate e le rispettive capacità. Il riferimento a tale principio, menzionato a più riprese dai trattati sul clima e dalle decisioni COP, è stato formulato in maniera leggermente diversa nell’Accordo di Parigi, dove, accanto alla usuale dizione è stata aggiunta la frase “alla luce delle differenti circostanze nazionali” (in the light of the different national circumstances). Secondo la Corte, la frase aggiuntiva non cambia il significato profondo del principio ma lo arricchisce di una nuova sfumatura. Ovvero, riconosce che lo status di Paese sviluppato o in via di sviluppo non è statico. Questo significa che economie emergenti come la Cina, l’India il Brasile o i Paesi Arabi del Golfo potrebbero essere chiamate ad affrontare la sfida climatica allo stesso modo dei Paesi sviluppati, superando di fatto l’originale distinzione tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo sancita negli Annex I e II della UNFCCC (si veda in particolare para 292 su questo punto).
1.3 Gli obblighi climatici vincolanti
L’analisi degli obblighi climatici vincolanti degli Stati ai sensi del diritto internazionale è molto estesa. In questa sezione ci concentriamo sulle principali obbligazioni che possono far emergere una responsabilità degli Stati, accorpando le argomentazioni dell’ICJ.
I trattati sul clima
A parere della Corte, gli obblighi di mitigazione, di adattamento e di cooperazione sanciti nei trattati sul clima sono di natura vincolante e piuttosto stringenti nel loro contenuto. In particolare, la Corte afferma che:
- L’1,5°C è l’obiettivo primario ai sensi dell’Accordo di Parigi (e non il 2°C). Mantenere l’aumento delle temperature medie globali sotto 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali è il target consensualmente riconosciuto dalle Parti come l’obiettivo capace di garantire, alla luce della scienza climatica, la risposta più efficace contro i cambiamenti climatici (para 224-225).
- Le Parti devono preparare e inviare ogni 5 anni contributi nazionali determinati (NDC) – obiettivi climatici nazionali che contribuiscano efficacemente e collettivamente al raggiungimento dell’obiettivo comune dell’1,5°C. Le Parti tuttavia non possono limitarsi a predisporre il proprio NDC a propria discrezione e senza un ragionamento serio alla base. Al contrario, gli NDC devono essere progressivi e riflettere il massimo sforzo possibile dello stato nel raggiungere l’obiettivo globale comune in linea con la scienza climatica. La diligenza richiesta agli stati è dunque molto stringente, e per alcuni anche di più in virtù del principio di CBRD-RC. Questo richiama il concetto di ‘due diligence rafforzata’ espresso dalla Corte Inter-Americana dei diritti dell’uomo.
- L’adozione di NDC adeguati ed efficaci deve inoltre riflettersi nell’implementazione di appropriate misure di mitigazione a livello nazionale (‘pursue domestic mitigation measures’), inclusa un’efficace regolamentazione del settore privato, operante nella giurisdizione o sotto il controllo dello Stato-parte, in particolare per gli emettitori di gas climalteranti.
- Le Parti sono tenute a predisporre piani nazionali di adattamento (NAP) con la massima diligenza e in linea con la scienza climatica, con l’obiettivo di migliorare le capacità adattive e la resilienza degli individui e delle comunità, riducendo anche le loro vulnerabilità. Dunque anche l’adattamento non è più un’opzione, ma un vero e proprio obbligo vincolante, il cui contenuto non è lasciato alla discrezionalità degli Stati ma che deve rispondere a certi requisiti di efficacia e adeguatezza in linea con la scienza climatica e con il progresso tecnologico-scientifico.
- Anche l’assistenza finanziaria (la cosiddetta finanza climatica) e lo scambio di risorse scientifico-tecnologiche sono obblighi giuridici vincolanti, che rientranonel dovere di cooperazione internazionale richiesto agli Stati-parte dai trattati sul clima.
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Il diritto internazionale consuetudinario
L’ICJ ha individuato due obblighi consuetudinari di applicazione universale (erga omnes) come particolarmente rilevanti nel contesto della crisi climatica.
Il primo è il dovere di prevenire danni ambientali significativi – che riflette il più ampio principio di prevenzione in materia ambientale, già sancito in precedenti casi esaminati dall’ICJ (Trail Smelter e Corfù Channel). Questa norma impone agli Stati di adottare tutte le misure necessarie, siano esse di mitigazione che di adattamento, per evitare di provocare danni al clima (climate system). Questo include anche la regolamentazione attiva ed efficace degli attori del settore privato che operano entro la giurisdizione e sotto il controllo dello Stato. Anche in questo caso la diligenza richiesta agli Stati nell’adempiere a questo obbligo è molto stringente, in quanto la condotta deve essere allineata alla scienza climatica. Secondo il principio di prevenzione, infatti, più alta e seria è la probabilità del possibile danno, più rigorosa dev’essere la condotta dello Stato (para 275). In questo senso, l’IPCC ha già dimostrato che esiste un’alta probabilità che gli effetti dei cambiamenti climatici, se non mitigati o in caso di mal-adattamento, saranno particolarmente gravi. In particolare gli Stati, in base al principio di CBRD-RC, devono mettere in campo tutte le risorse e i mezzi a loro disposizione (to use all means at their disposal) per affrontare la crisi climatica. Anche i Paesi che sono riusciti nel frattempo a svilupparsi economicamente e a incrementare le loro capacità sono chiamati a maggiore rigore e ambizione (para 292).
Il secondo obbligo consuetudinario è relativo al dovere di cooperare per la tutela dell’ambiente. Già l’ITLOS (il Tribunale per il diritto del mare delle Nazioni Unite) nel suo recente parere consultivo aveva sancito l’importanza della cooperazione internazionale nella protezione dell’ambiente marino. La ICJ conferma la sua rilevanza nel più ampio contesto della crisi climatica: in quanto sfida globale condivisa, i cambiamenti climatici richiedono un’azione internazionale concertata. Per quanto gli Stati godano di una certa flessibilità nelle modalità di cooperazione, questa discrezionalità non può essere utilizzata come scusa per astenersi dal collaborare con il livello richiesto di diligenza o per presentare il proprio impegno come un contributo interamente volontario che non necessita di essere sottoposto a verifica. La cooperazione “non è più una questione di scelta per gli Stati, ma una esigenza pressante e un obbligo legale” (para 308).
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Il diritto internazionale dei diritti umani
Confermando il crescente trend delle cause climatiche, anche l’ICJ ha riconosciuto con fermezza l’indissolubile relazione tra uomo e natura. In particolare, l’ICJ ha confermato che i cambiamenti climatici stanno mettendo a rischio il godimento di un ampio spettro di diritti umani, come il diritto alla vita, alla salute e a condizioni di vita dignitose, l’accesso al cibo, all’acqua e a un rifugio, il diritto alla vita privata e familiare. La Corte ha inoltre sottolineato che i loro effetti colpiscono in modo sproporzionato i gruppi sociali più vulnerabili – come le donne, i bambini, i disabili, gli anziani e le popolazioni indigene.
Per questo gli Stati hanno l’obbligo giuridico, ai sensi del diritto internazionale in materia di diritti umani, di proteggere le persone e le comunità dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici. Un elemento fondamentale di questa parte del parere è il riconoscimento esplicito da parte della Corte del diritto umano a un ambiente pulito, salubre e sostenibile quale presupposto indispensabile per il godimento di tutti gli altri diritti umani. In particolare, la Corte dice che “non si vede come gli obblighi ai sensi dei diritti umani possano essere adempiuti senza nel contempo assicurare la tutela di un ambiente pulito, salubre e sostenibile come diritto umano” (para 393). Dunque, il pieno godimento dei diritti umani non può essere garantito senza la protezione del sistema climatico e dell’ambiente. Una conclusione che è stata accolta con entusiasmo dagli esperti di diritti umani nel contesto della crisi climatica delle Nazioni Unite. Per garantire questi diritti umani, gli Stati sono tenuti ad adottare le misure necessarie per proteggere il sistema climatico, incluse solide azioni di mitigazione e adattamento, norme e leggi adeguate e, soprattutto, la regolamentazione delle attività degli attori privati che contribuiscono ai cambiamenti climatici e al loro impatto sui diritti umani. In particolare, gli Stati sono tenuti a integrare approcci basati sui diritti umani nell’attuazione dei loro impegni climatici, anche attraverso lenti intersezionali. Gli Stati devono garantire non solo che l’azione per il clima sia efficace nel ridurre le emissioni e rafforzare la resilienza, ma anche che sia pienamente conforme ai diritti umani fondamentali e li tuteli.
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2. La responsabilità degli Stati in caso di violazione degli obblighi climatici
La Corte ha chiarito che la violazione degli obblighi climatici determina un illecito internazionale passibile di sanzione. Le norme sul clima non sono più solo aspirazioni, ma veri e propri obblighi vincolanti. Non potendo specificare le conseguenze precise di un illecito internazionale in astratto, data la natura consultiva del procedimento e la dipendenza specifica dal caso concreto in termini di violazione e danno, la Corte ha affermato che in linea di massima le violazioni degli obblighi climatici possono innescare “l’intera gamma di conseguenze giuridiche” (the entire panoply of legal consequences) previste dal diritto della responsabilità degli Stati.
In primo luogo, l’ICJ ha sottolineato che un’eventuale violazione non estingue il dovere fondamentale dello Stato responsabile di adempiere all’obbligo climatico: gli stati sono sempre tenuti ad agire in coerenza con i loro obblighi climatici (duty of performance). Successivamente la Corte ha elencato le possibili sanzioni in caso di illecito internazionale. Queste includono:
- l’obbligo di cessare la violazione e di offrire assicurazioni e garanzie di non ripetizione di violazioni future (duty of cessation and non-repetition);
- l’obbligo di piena riparazione (duty to make full reparation). Basandosi sul principio secondo cui la riparazione deve “eliminare tutte le conseguenze dell’atto illegale”, gli Stati responsabili sono obbligati a riparare integralmente il danno causato. Ciò può assumere varie forme:
- la restituzione (restitution), ove possibile, mira a riportare la situazione a quella precedente alla violazione. Nel contesto climatico, ciò potrebbe comportare la ricostruzione di infrastrutture o il ripristino di ecosistemi, anche se tali rimedi sono spesso complessi da attuare e dipendono dal contesto.
- il risarcimento (compensation) è richiesto quando la restituzione non è fattibile. La Corte ha riconosciuto le difficoltà nel quantificare i danni legati al clima, ma ha confermato che il risarcimento può essere dovuto se è possibile stabilire un chiaro nesso causale. In alcuni casi, ciò potrebbe assumere la forma di una somma globale, basata sulle prove disponibili e su considerazioni di equità.
- la soddisfazione (satisfaction) riguarda i danni immateriali, come la lesione della dignità o della posizione giuridica, che non possono essere riparati attraverso la restituzione o il risarcimento. Ciò potrebbe includere scuse formali, riconoscimenti pubblici o iniziative educative, a seconda della natura della violazione.
Conclusioni
Il parere consultivo dell’ICJ è sicuramente storico e senza precedenti e, nonostante la sua natura non vincolante, è capace di produrre estesi effetti. In quanto fortemente autorevole, si presume che verrà seguito dalle corti e dai tribunali, sia nazionali che regionali, chiamati ad esprimersi su quesiti simili. Dunque avrà un’influenza notevole sulle cause climatiche pendenti e future.
Si presume inoltre che guiderà gli Stati anche nelle loro decisioni in materia di cambiamenti climatici, a partire dai negoziati sul clima. Per quanto la Corte lasci discrezionalità sul punto, il dovere di cooperazione internazionale presupporrebbe per le Parti di adottare decisioni negoziali allineate alla sfida climatica, dunque progressive e ambiziose, anche se il timore di reazioni negative è forte visto l’attuale contesto geopolitico, come affermato anche dal giudice Nolte.
Ci si attendono infine risvolti anche sul piano europeo. Gli attuali tentativi di diluizione delle normative green europee potrebbero infatti essere considerati illeciti internazionali – pensiamo al decreto omnibus e alla revisione della Direttiva sulla Due Diligence della Sostenibilità (CSDDD) relativa alla regolazione del settore privato (ne avevamo parlato qui), o agli NDC dei paesi membri non in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Inoltre, il riconoscimento del diritto umano a un ambiente pulito, salubre e sostenibile come precondizione degli altri diritti umani potrebbe risolvere il dibattito in seno al Consiglio d’Europa sull’inclusione di tale diritto nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, attraverso l’adozione di un protocollo aggiuntivo.
Rimane il fatto che il parere consultivo dell’ICJ non può certo risolvere tutto. Come affermato dalla stessa ICJ, il parere risponde solo a dei quesiti giuridici, ma la crisi climatica pone questioni ben più profonde. Solo con volontà, saggezza e radicali trasformazioni sociali, culturali, economiche e politiche potremo affrontare efficacemente la sfida globale dei cambiamenti climatici.
Le nostre riflessioni climatiche continueranno in prossimi articoli e approfondimenti. Il materiale da sviscerare è molto, e molti sono gli argomenti che impongono ulteriori: vi invitiamo quindi a seguirci nei prossimi approfondimenti.
Articolo a cura di Erika Moranduzzo, componente del Consiglio Direttivo di Italian Climate Network, con il contributo critico del Team di ICN che sta approfondendo il tema nella serie La Causa del Secolo.
Immagine di copertina: © International Court of Justice.
Per capire meglio:
Cos’è il diritto consuetudinario?
In genere gli obblighi internazionali sono sanciti in trattati internazionali – bilaterali o multilaterali -, che gli Stati hanno negoziato o a cui hanno deciso di aderire. Il diritto internazionale consuetudinario, invece, è un insieme di obblighi internazionali non scritti che si cristallizzano nel diritto internazionale quando gli Stati ripetono costantemente uno stesso comportamento (diuturnitas) nella convinzione che questo sia giuridicamente vincolante (opinione iuris). Queste norme hanno efficacia erga omnes, il che significa che si applicano a tutti gli Stati anche se non hanno firmato alcun accordo scritto.
Cos’è la lex specialis?
La lex specialis è uno strumento di interpretazione del diritto internazionale che serve a dirimere un conflitto tra norme che possono applicarsi alla stessa fattispecie al fine di identificare la disciplina più idonea a risolvere un caso concreto. In base alla lex specialis la norma più specifica deroga a quella più generale perché specificamente ritagliata per la fattispecie che deve regolare, e quindi prevale sulla norma generale. Ad esempio, il diritto internazionale umanitario è una lex specialis rispetto ai diritti umani generali. Nel contesto della crisi climatica la Corte non rileva l’esistenza di alcun conflitto tra norme, e sottolinea invece la loro complementarità nel rafforzare il quadro giuridico di riferimento.
La scienza climatica è legge
Come altre Corti, anche la ICJ ha utilizzato a piene mani la scienza climatica per giungere alle sue conclusioni. L’IPCC e i suoi report vengono consacrati a scienza più accreditata sulle cause, natura e conseguenze dei cambiamenti climatici, la cui autorevolezza è anche diffusamente riconosciuta dalla comunità internazionale e quindi dagli stati. La Corte menziona i report dell’IPCC per illustrare la gravità della crisi climatica e dei suoi effetti sulla vita delle persone e sulla salute del pianeta. La Corte inoltre conferisce alla scienza climatica un ruolo privilegiato, quello di ‘metro di paragone’ per stabilire l’adeguatezza delle misure di mitigazione, adattamento e cooperazione messe in campo per far fronte alla crisi climatica. La Corte afferma infatti che tutta l’azione climatica deve essere science-aligned. La diligenza dello stato viene quindi valutata in base alla scienza climatica. Più ne sappiamo più ci sia aspetta qualcosa da parte dello stato. Di conseguenza, gli stati sono tenuti a fare riferimento ad essa e a impegnarsi nella ricerca e lo sviluppo di nuove e aggiornate conoscenze scientifiche e tecnologiche (para 283).
Fossil Fuel Phase Out: non è più un’opzione?
La Corte ha affermato che la mitigazione e la prevenzione di danni significativi al clima riguardano tutte le attività di natura antropogenica che risultano nella emissione di gas climalteranti, incluse la produzione, la concessione di licenze e la sovvenzione di combustibili fossili. Tuttavia, la Corte non si è spinta oltre questa considerazione.
Al contrario i giudici Bhandari e Cleveland, nella loro dichiarazione congiunta separata, hanno elaborato in maniera più precisa la portata di questo principio. A loro avviso, a voler essere rigorosi e in linea con la scienza climatica, si può trarre una sola conclusione: per stare sotto l’1,5°C, è necessario il completo abbandono dei combustibili fossili e la loro sostituzione con le energie rinnovabili. I progetti per l’estrazione di combustibili fossili non sono compatibili con le attuali evidenze scientifiche e non possono essere perseguiti ulteriormente, pena la violazione del quadro normativo di riferimento sui cambiamenti climatici e la sanzione dello stato. In linea con questa affermazione, i due giudici hanno anche precisato che gli stati devono includere misure di contrasto e regolazione della produzione, licenza e sussidi ai fossili nei propri NDC, considerando anche gli effetti cumulativi e transfrontalieri delle emissioni.
Natura giuridica del diritto a un ambiente pulito, salubre e sostenibile
Per quanto la Corte abbia riconosciuto all’unanimità che il diritto ad un ambiente pulito, salubre e sostenibile non è solo un diritto umano ma anche una precondizione indispensabile per il godimento di tutti gli altri diritti umani, non ha proseguito oltre traendone le relative conseguenze. Tuttavia, il ragionamento dell’ICJ, letto insieme alle opinioni separate dei giudici Tladi, Aurescu, Charlesworth, and Bhandari, non lascia spazio per grandi dubbi: il diritto a un ambiente pulito, salubre e sostenibile non è solo un diritto umano ma è diventato anche norma di diritto consuetudinario. Questi giudici infatti sottolineano l’ampio riconoscimento internazionale di questo diritto (anche nella recente AO-32/25 della Corte Inter-Americana dei diritti dell’uomo) tradotto in corrispondenti comportamenti degli stati. Il diritto ad un ambiente pulito, salubre e sostenibile sarebbe dunque anche una norma autonoma e legalmente vincolante di diritto consuetudinario. Come tale sarebbe universalmente vincolante anche in assenza di un trattato scritto. Questa conclusione è particolarmente rilevante nel contesto regionale Europeo, l’unico nel quale tale diritto non sia stato ascritto formalmente tra i diritti umani. Presumibilmente, il corrente dibattito sull’adozione di un protocollo aggiuntivo alla CEDU per inserire tale diritto tra quelli già riconosciuti, potrebbe non essere più così rilevante, avendo già tale diritto natura giuridica vincolate a livello universale.
