IL G7 DELL’IMMOBILISMO: HIROSHIMA FOSSIL VIBES
Ormai da qualche anno, chi come noi segue le politiche internazionali sul clima, si è attrezzato a seguire con attenzione i lavori del G7 e del G20, fori che aiutano ad intuire la direzione della COP successiva, secondo l’ormai usuale calendario G7-G20-COP, con gradi di coinvolgimento crescenti dei diversi governi del mondo. Plateale il caso del G20 a guida italiana del 2021, che condotto dal governo Draghi in vista della COP26 italo-britannica riuscì a riportare nelle dichiarazioni d’intenti il ruolo della scienza, dell’IPCC e l’importanza dell’obiettivo minimo dell’Accordo di Parigi, di contenere la crescita media delle temperature entro +1,5°C entro la fine del secolo, già allora dato da molti governi per perso, irrealizzabile.
Bisogna essere realisti però. Nessuno si aspettava che il G7 a guida giapponese di questi mesi avrebbe potuto imprimere una qualche svolta sorprendente nell’ormai consolidata tendenza attendista degli ultimi due anni, dettata principalmente dal caos internazionale su prezzi ed energia generato dall’invasione russa dell’Ucraina. Tuttavia, era importante monitorare e, nei limiti del raggio d’azione della società civile, far sì che quelle conquiste minime del G20 italiano di due anni fa non fossero dimenticate o, come più facilmente accade in politica, omesse per finta dimenticanza dai testi finali.
Il comunicato politico finale del G7 approvato da tutti i leader non fa passi indietro in questo senso, ma neanche in avanti. Vengono confermate l’importanza dell’obiettivo minimo di Parigi – citato addirittura sedici volte nel testo – e l’importanza del ruolo della scienza e del comitato intergovernativo di scienziati, l’IPCC, che da decenni indica ai governi la strada da seguire per evitare il disastro nella crisi fossile. Tutto questo può sembrarci positivo se pensiamo che questo G7 si riunisce nel mezzo di una guerra di logoramento nel cuore dell’Europa, ma non lo è: quanto sopra rappresentava la base di ogni successivo vertice o accordo dal 2021 in poi, vista l’urgenza. Non certo uno smaltato status quo, nato vecchio e oggi da vedere, appunto, come base ferma di ogni nuova politica.
Le nuove politiche sembrano invece rispondere molto più all’urgenza energetica e dei prezzi del breve periodo che ad un ragionamento su più ampia scala, portando il testo a contraddirsi in numerosi passaggi. Con questo non vogliamo certo assumere una posizione irremovibile e irrealistica rispetto alla necessità di ogni governo europeo di dare energia accessibile ai suoi cittadini e cittadine, certo che no: solo sottolineiamo che, con i dovuti investimenti pubblici e mobilitazione di capitali privati, ci sarebbero tante vie per arrivare allo stesso obiettivo. I governi del G7 hanno invece deciso per l’ennesima volta di investire sul gas, nell’immediato e – diciamocelo, nessuno costruisce infrastrutture da milioni di euro per smontarle dopo due anni, prima di ogni ammortamento – nei prossimi anni.
Nel comunicato finale del G7 si dice infatti che “supporto pubblico a investimenti nel settore del gas sono appropriati come risposta temporanea” all’attuale crisi energetica. Gli stessi governi che citano sedici volte nello stesso testo l’obiettivo di rimanere entro +1,5°C, dovrebbero essere ben consapevoli che nessun nuovo investimento in infrastrutture per energie fossili può essere ritenuto “appropriato”, vista l’urgenza crescente e le tecnologie rinnovabili già ampiamente disponibili, ora sempre più economiche, nei sette mercati di riferimento. È evidente che nella dialettica politica circa questa decisione non vi siano solo due attori, i governi e la scienza. Nel gioco entrano altri interessi. Senza una vera visione di transizione ecologica che comprenda anche il supporto al lavoro, fondi sociali per la transizione e riqualificazione professionale, nell’equazione si inserisce come sempre una variabile, ben orientata da alcuni, di “terrore del verde” in termini di lavoro e produzione. Terrore ormai largamente infondato e di fatto legato a false credenze del tutto conservative, superate e in progressiva auto-svalutazione.
Il comunicato finale del G7 non porta infine niente di nuovo – e questo è un vero peccato – sul tema della finanza internazionale per il clima, anche in vista del lancio, a COP28, del nuovo fondo globale a sostegno delle compensazioni per perdite e danni legati ai cambiamenti climatici. Dal G7 giapponese, con la Federazione Russa fuori dalla stanza in attesa di partecipare al prossimo G20 tra qualche mese, potevamo forse aspettarci, questo sì, un impegno delle maggiori economie del pianeta verso il superamento dell’ormai preistorico obiettivo (lanciato a Copenhagen nel 2009) di garantire almeno 100 miliardi di dollari all’anno in finanza climatica per i paesi più poveri , obiettivo mai raggiunto. Nel comunicato del G7 si conferma la volontà di farlo entro il 2023: con non poco scoramento sottolineiamo che è la quattordicesima volta in quattordici anni che lo sentiamo dire e su questo tema, il finanziamento di fondi multilaterali, il nostro paese purtroppo non brilla per iniziativa. Intanto secondo Oxfam bisogni e necessità attuali dei paesi più fragili sono stati stimati, solo per la parte relativa a perdite e danni e senza contare azioni di mitigazione e adattamento, in 8.700 miliardi di dollari contro i 100 promessi da anni: necessità e promesse giocano ormai campionati diversi.
Volendo vedere una nota positiva nel testo, troviamo non scontato che venga citato più volte proprio il nuovo fondo per perdite e danni menzionato poco sopra. Fondo che, ricordiamo, in sede di COP27 nessuno dei paesi partecipanti al G7 avrebbe voluto veder nascere, preferendogli soluzioni-tampone basate su schemi assicurativi come il Global Shield promosso da Stati Uniti d’America e Germania. Messi al muro dal blocco granitico dei paesi in via di sviluppo e costretti, in Egitto, ad accettare e far propria la previsione del nuovo fondo, i sette grandi potrebbero aver perso oggi l’occasione di rilanciare l’ambizione globale su almeno un tema, questo di perdite e danni, comunicando delle prime promesse in termini di finanziamento per start-up del fondo stesso, visto anche che dalle prime bozze circolate si capisce che il fondo non richiederà contribuzioni sulla base di responsabilità storiche. Ma forse è presto, rimaniamo fiduciosi che qualcosa in questo senso si muoverà durante l’anno. Da capire, infine, quale sarà il ruolo italiano in questa storia.
Articolo a cura di Jacopo Bencini, Policy Advisor e UNFCCC Contact Point
Foto di copertina: Consiglio Europeo