PERDITE E DANNI: LA CRISI CHE NON VOLEVAMO, MA CHE POTEVAMO ASPETTARCI
- Il testo licenziato per COP28 tradisce le aspettative dei Paesi vulnerabili sul nuovo fondo Perdite e Danni, noto anche come Loss and Damage.
- I Paesi sviluppati sembrano battere in ritirata sui loro obblighi internazionali.
- La società civile alza l’allerta: questo testo allontana dall’obiettivo.
Nel 2022 la COP27 si era conclusa con una grande vittoria politica per i Paesi in via di sviluppo, vista la decisione storica di istituire un fondo per perdite e danni (Loss and Damage Fund) volto a veicolare nuove risorse finanziarie dai Paesi più ricchi a quelli in via di sviluppo per far fronte agli effetti avversi del cambiamento climatico.
Sempre in quella sede ci si era poi lasciati con la decisione di istituire una Commissione Transitoria (Transitional Committee) composta di 24 membri, rispettivamente 14 dai Paesi in via di Sviluppo e 10 dai Paesi Sviluppati, incaricata di imbastire un piano per l’operazionalizzazione del Fondo e giungere a delle raccomandazioni da sottoporre ai leader degli Stati a COP28.
La Commissione Transitoria ha lavorato assiduamente nel corso dell’anno, coinvolgendo anche membri della società civile invitati a presentare le loro proposte. E tuttavia, il testo licenziato nella notte tra il 3-4 Novembre è risultato a dir poco deludente sotto molti profili, a detta di molte organizzazioni della società civile.
Partiamo col dire che nessuno certamente si aspettava che il negoziato sarebbe stato una passeggiata. Certo però la straordinarietà della decisione raggiunta a COP27 aveva lasciato sperare in un processo forse meno turbolento. E invece, nonostante generose concessioni dei Paesi in via di Sviluppo, si è giunti ad una bozza di testo – presentato infine come un pacchetto ‘prendere o lasciare” per le difficoltà nel raggiungere un accordo tra i Paesi – dal linguaggio che lascia aperti interrogativi legali e di responsabilità. Un testo vissuto come un “volta-faccia” rispetto alle richieste di giustizia climatica avanzate dalla società civile, dalle comunità più colpite dalla crisi climatica e dai Paesi in via di sviluppo emerse negli ultimi mesi.
Cosa non funziona e perché?
Cinque sono i punti problematici:
- Non c’è un esplicito riferimento al principio delle ‘responsabilità comuni ma differenziate e rispettive capacità’ (Articolo 3(1) UNFCCC), principio cardine di giustizia climatica che affronta il tema della attribuzione delle responsabilità e della redistribuzione delle risorse necessarie per far fronte al cambiamento climatico.
- Non ci sono obbligazioni che impongano agli Stati una effettiva contribuzione finanziaria, sancendo invece la volontarietà della partecipazione. Il testo utilizza termini come ‘sollecitare’ o ‘incoraggiare’ i Paesi sviluppati a fornire supporto finanziario, al posto di ‘obbligar[li]’ a partecipare al fondo.
- Si prevede che il Fondo venga ospitato temporaneamente presso la Banca Mondiale per 4 anni (un periodo-test), senza indicare una strategia di uscita. Questo uno dei temi più caldi se si considera i rapporti storicamente non idilliaci tra mondo in via di sviluppo e Banca Mondiale, dal tema del debito a quello della scarsa trasparenza dell’organizzazione, fino a dubbi sull’effettiva sostenibilità di molti suoi progetti.
- La scala di impegno non è definita. Il testo non indica alcuna specifica ‘cifra’ da versare all’interno del Fondo, né indica la tipologia di risorse finanziarie che possono essere utilizzate, facendo riferimento ad un generico ‘ampia varietà di risorse di finanziamento’ tra cui mutui, assicurazioni anziché sancire l’utilizzo di strumenti di più equa redistribuzione come tasse, imposte o prestiti a fondo perduto.
- Non c’è menzione dei diritti umani con riferimento allo ‘Strumento di Governo’ (Governing Instrument – Annex I) che stabilisce gli obiettivi, l’ambito di operatività materiale del Fondo e dei suoi organi interni, in particolare il Board. Tuttavia, i diritti umani sono l’altro pilastro della giustizia climatica che consente un approccio al cambiamento climatico che ponga al centro le persone, i loro diritti e la riduzione delle ineguaglianze sistemiche di base.
A minare alle fondamenta la possibilità che il Fondo realizzi gli obiettivi sperati sono stati i Paesi ricchi, in testa gli Stati Uniti che hanno opposto sin dall’inizio l’idea che i Paesi Sviluppati fossero chiamati a rispondere finanziariamente della loro responsabilità storica nell’aver causato il cambiamento climatico. In particolare, la delegata statunitense Chan ha dichiarato che un tale linguaggio avrebbe impedito di raggiungere un qualsiasi tipo di accordo, insistendo per un lessico volutamente non vincolante. Anche la proposta che il Fondo venga ospitato dalla Banca Mondiale è stata formulata dagli Stati Uniti con il supporto dell’Unione Europea, ovvero proprio dai soggetti che paiono tra i maggiori beneficiari della sua dubbia operatività.
A ciò si aggiunge la questione del mancato raggiungimento di un vero consenso sul testo, sollevata appena subito dopo l’adozione del testo dalla delegata statunitense.
Dinamiche di potere, dunque, che ancora una volta mettono in luce la fragilità del processo decisionale interno alle Nazioni Unite su temi politicamente divisivi; in questo caso con una predominanza delle posizioni dei Paesi ricchi nelle decisioni, e che aprono una crisi che alla vigilia di COP28 non ci voleva ma che si poteva prevedere. Questa infatti affonda le radici in qualcosa di più profondo: diverse visioni di sistema e di futuro. La questione specifica rimanda al più ampio scenario che ogni anno osserviamo durante i negoziati, con da una parte chi propone un mondo più equo e giusto, che punti a uno sviluppo eco-compatibile dall’altra, invece, c’è chi dà la priorità a consolidati interessi (economici e fossili), e dunque a mantenere uno status quo da cui trarre beneficio. Neppure il recente annuncio dell’Unione Europea di voler contribuire finanziariamente al Fondo in modo molto sostanziale – per quanto non possa che essere accolto positivamente – cambia quanto scritto, visto che non crediamo possa essere interpretato come una volontà dell’UE di voler rivedere totalmente la sua posizione sul Fondo e sulla questione di perdite e danni in modo sostanziale, peraltro a pochi mesi dalle elezioni per il rinnovo delle cariche politiche a Bruxelles.
Articolo a cura di Erika Moranduzzo, Coordinatrice della Sezione Clima e Diritti di Italian Climate Network
Fonti: UNFCCC, testo L&D, Carbon Brief, The Loss and Damage Collaboration, Harjeet Singh, CAN International, Lien Vandamme, CIEL, Human Rights Watch, Heinrich Böll Stiftung e Bretton Wood Project.