06
Lug

Loss and damage: non perdere la speranza

E’ tutta questione di nomi. Viene definito “la terza gamba della finanza climatica”, dopo mitigazione (ridurre, cioè, le emissioni) e adattamento (prepararsi al peggio prima che accada: per esempio, rinforzando gli argini dei fiumi che rischiano di esondare). Il cosiddetto loss and damage è l’insieme delle politiche messe in campo quando il disastro climatico è avvenuto, e bisogna sedersi a far la conta dei danni. Già, ma chi paga? 

Al crocevia 

Un nuovo fondo internazionale potrebbe fornire la risposta. Deciso nelle battute finali della COP27 di Sharm el-Sheik, dovrebbe essere battezzato a dicembre nella Conferenza delle Parti di Dubai. Ma non è ancora tempo di stappare lo champagne. 

Ci troviamo al crocevia tra storia, diritto internazionale,  economia e geopolitica, un’insalata mista che consente di trovare scappatoie o – e in fondo è lo stesso – dilatare i tempi a oltranza. 

C’è fretta di far partire i primi bonifici, ma comprendere la complessità di un accordo del genere non è facile per chi non mastica di relazioni internazionali. 

I problemi che si incontrano cominciano con le definizioni. I Paesi industrializzati, con in testa gli Stati Uniti d’America, sono storicamente responsabili di buona parte delle emissioni di anidride carbonica il cui risultato colpisce prevalentemente  più poveri. Ma, in una delle tante cautele – qualcuno direbbe “ipocrisie” – che caratterizzano la diplomazia, proprio i responsabili della crisi climatica non vogliono sentir parlare di “risarcimenti” o “compensazioni”: se un flusso di denaro ci sarà verso il Global South, si tratterà semplicemente di “aiuti”, revocabili in qualsiasi momento. La ragione risiede nel timore di azioni legali da migliaia di miliardi di dollari. 

Sembra incredibile? Eppure, su queste tre parole, i negoziatori si affrontano da anni col coltello tra i denti. Un confronto impari, con delegazioni occidentali formate nelle migliori università alla ricerca di cavilli e precedenti, seduti di fronte a colleghi provenienti da Paesi con poche decine di migliaia di abitanti e scuole dalla tradizione decisamente non paragonabile.

Ma non è finita. Cosa – chiedono gli inquinatori – è risarcibile, e cosa no? Lo è una tempesta devastante (un evento, cioè, ben identificabile sul calendario)? Forse. Ma che dire della desertificazione, di cui è difficile identificare i confini temporali, e che produce il fenomeno delle migrazioni climatiche?

E ancora. Gli abitanti di Tuvalu, Stato polinesiano composto da isole che si trovano a metà strada tra le Hawaii e l’Australia, sanno che le acque del Pacifico potrebbero sommergere il loro territorio nel giro di qualche decennio per via dell’innalzamento dei mari, fenomeno lento ma ingravescente. Il governo locale sta già da tempo cercando soluzioni per ricollocarli altrove. Ma chi accetterebbe uno stato sovrano sul proprio territorio, in grado di far accordi e avere relazioni diplomatiche anche con nemici? E che leggi seguirebbero i nuovi abitanti?  Cosa ne sarebbe dei confini marittimi dell’arcipelago di Tuvalu, delle sue acque territoriali? Un avamposto nel Pacifico fa gola a molti, fosse anche un approdo per gran parte inabitabile, ma buono per ancorarci qualche portaerei. Se poi si scoprisse sotto i fondali qualche giacimento di terre rare, non è peregrina l’idea di uno scontro, anche armato, per accaparrarsi le risorse. Non sarebbe storia nuova. 

Ci sono, purtroppo, molte altre domande. Che ruolo avrebbe, nel futuro fondo, la Cina, formalmente considerata ancora in via di sviluppo, nella realtà tra i più grandi inquinatori del Pianeta con un benessere medio che è aumentato di molto negli ultimi anni?  E in che modo assicurarsi che i soldi versati per il loss and damage finiscano in progetti seri e credibili, e non nelle tasche di élite locali corrotte, come spesso accade, che li stipano in qualche paradiso fiscale? Chiederselo non è politicamente scorretto: è pragmatico. 

L’urgenza e la speranza

L’antologia di poco sopra può essere scoraggiante: ma non è questo l’intento di chi scrive. Vuole essere, piuttosto, un invito a comprendere che non esistono soluzioni semplici a problemi di questa portata. Non c’è un leader che, da solo, possa imprimere un’accelerazione tale da svoltare nel giro di qualche mese. Non può Biden, non può Xi. Ma  gutta cavat lapidem, dicevano i Latini, la goccia scava la pietra: ed è ora di rinnovare lo slancio acquisito a partire da Glasgow, arrotolandosi le maniche. 

Ora più che mai, è necessario un lento lavoro per aumentare la consapevolezza che il modello di sviluppo basato sullo sfruttamento appartiene a un passato che non tornerà. Fra qualche tempo, ricorderemo il Novecento come un secolo di sprechi, persino un po’ volgari: compito dei cittadini di buona volontà è dare l’esempio di una moderata sobrietà, stemperando il negazionismo, disinnescando le polarizzazioni, comprendendo il punto di vista degli interlocutori. Insomma, di fare da argine mantenendo una tranquilla fermezza. 

Il nuovo fondo potrebbe davvero vedere la luce a Dubai fra pochi mesi: una bozza è già circolata qualche settimana fa, e firmarla sarebbe un inizio. Ma sono tanti i dettagli che ancora mancano. 

Qualcuno è scettico. Quella di dicembre sarà, ancora una volta, una COP carica di attese, ma si svolgerà in un Paese autoritario, con la presidenza di un lobbista del petrolio: il mio, il nostro invito, è quello di non leggerla con gli occhi del massimalismo. Di giudicarla a bocce ferme, magari con l’aiuto degli esperti di Italian Climate Network e dei loro aggiornamenti puntuali; e, soprattutto, di non scoraggiarsi. Negli anni Novanta, il mondo si unì per fermare il “buco nell’ozono”: sembrava impossibile, ma quell’azione ebbe successo. La falla si è praticamente chiusa, e, per chi era bambino allora, resta l’esempio migliore di quello che la cooperazione può fare. Cerchiamo di ricordare ai giovani di oggi che un precedente c’è – e che, per quanto lento, il cambiamento è possibile. 

Articolo a cura di Antonio Piemontese, giornalista Wired

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