PreCOP26: atmosfera costruttiva, tra promesse e carbone
di Jacopo Bencini, Policy Advisor e UNFCCC Contact Point
Con la conferenza stampa finale di sabato 2 ottobre si è conclusa la preCOP di Milano, evento ministeriale di preparazione alla COP26 di Glasgow prevista a partire dal prossimo 31 ottobre a Glasgow, in Scozia. Per i Ministri e inviati presenti si trattava del primo momento negoziale in presenza dai tempi di Madrid 2019. I lavori sono iniziati dopo aver partecipato, nella giornata di giovedì, alla restituzione dei lavori di Youth4climate, l’evento organizzato dal governo italiano per portare la voce di quasi 400 giovani attivisti del clima da tutto il mondo nel processo negoziale (ne abbiamo parlato ampiamente nei giorni scorsi).
Ministri e inviati presenti a Milano hanno lavorato per temi e sottogruppi. La sessione più importante è stata forse la prima, quella di giovedì pomeriggio, su come “tenere vivo” l’obiettivo di contenere il riscaldamento climatico entro +1,5°C anche alla luce del primo capitolo del nuovo report IPCC (uscito il 9 agosto scorso) e del report sugli NDC pubblicato da UNFCCC nei giorni scorsi.
Nonostante un’atmosfera generalmente costruttiva nelle sale, come confermato anche dalle dichiarazioni in conferenza stampa e da alcuni addetti ai lavori contattati da ICN, sono emersi dei nodi da sciogliere a livello politico. Se i grandi Paesi occidentali sembrano essersi riallineati in termini di ambizione climatica con il ritorno in campo degli Stati Uniti, complici anche il summit sul clima organizzato dal presidente USA Joe Biden in aprile, il G7 e poi il G20, Paesi come Cina e Australia hanno portato posizioni diverse.
La Cina, nonostante il recente annuncio sullo stop di ogni piano di costruzione di nuove centrali a carbone oltremare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, rimane sostanzialmente sulla difensiva rispetto al ritorno della narrazione globale statunitense – ricostruire lo spirito di collaborazione del 2015 dopo anni di guerre commerciali e di riposizionamento geostrategico è oggi l’arduo compito dell’inviato speciale John Kerry, che non a caso negli ultimi mesi ha trascorso molto tempo proprio in Cina alla ricerca di un dialogo con la controparte. L’Australia, dal canto suo, non ha gradito lo slancio espresso dai paesi più ambiziosi sull’uscita dal carbone come fonte primaria di energia, a Milano come nei mesi precedenti. La posizione australiana segue gli esiti del G7 di Cornovaglia, dove nel giugno scorso le maggiori economie globali si erano espresse con decisione a favore di un’uscita rapida dalla fonte fossile per eccellenza. La stessa discussione di Milano si era poi già vista durante il G20 Ambiente di Napoli del 23 luglio scorso, quando il primo comunicato congiunto del G20 su Clima ed Energia di sempre fu pubblicato, dopo lunghi negoziati, “monco” di due temi per l’opposizione di Cina, Russia e India: non si decise sul calendario per l’uscita globale dal carbone, appunto, come non si decise sullo stop a finanziamenti per centrali a carbone di vecchia generazione e sussidi alle fonti fossili. Per capire perché l’Australia sia risultata tra gli attori più conservatori della preCOP26, è sufficiente ricordare che ad oggi il suo mix energetico è ancora composto al 76% da combustibili fossili, di cui ben il 54% è energia prodotta proprio da carbone. Una transizione accelerata nei prossimi dieci anni comporterebbe mega-investimenti che ad oggi il governo di Canberra non sembra intenzionato a sostenere.
Il fatto che anche in quella prima sessione di lavoro sui due report, IPCC e UNFCCC, si sia respirato un clima collaborativo e costruttivo, potrebbe comunque essere di buon auspicio verso Glasgow. In agosto, il primo capitolo del nuovo report IPCC sottolineò l’ormai quasi-impossibilità di contenere le temperature entro +1,5°C come da obiettivo minimo dell’Accordo di Parigi, con un pianeta che già oggi risulta riscaldato in media di +1,09°C. Lo stesso report diceva che difficilmente potremo evitare di raggiungere +1,5°C entro il 2040. Nei giorni scorsi è poi uscito il report di UNFCCC sull’ambizione degli NDC. In quelle pagine un messaggio chiaro: ad oggi, nonostante le promesse aggiornate di molti paesi, siamo ampiamente fuori strada. Anche se tutti i paesi rispettassero integralmente quanto promesso nei loro documenti nazionali, incluse le misure ad oggi indicate come condizionali (ossia dipendenti da aiuti esterni), andremmo comunque incontro ad una stabilizzazione della crescita delle emissioni solo intorno al 2030, con la possibilità di un picco delle emissioni proprio al 2030 solo nel caso in cui tutte le parti condizionali fossero implementate – ossia supportate, da subito, da ingenti flussi Nord-Sud in termini di finanze, competenze, conoscenze. A promesse attuali, insomma, il massimo che possiamo aspettarci per il 2030 sembra essere una stabilizzazione della crescita delle emissioni o un picco, sicuramente non una diminuzione, in un contesto in cui gli obiettivi dell’Accordo di Parigi richiederebbero invece una discesa – rapida – delle emissioni globali.
Colpisce però in positivo che secondo il report UNFCCC i nuovi NDC presentati nella seconda metà del 2021, anche a seguito del vertice sul clima organizzato dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, abbiano già abbassato di circa il 10% la crescita stimata delle emissioni al 2030 rispetto al 1990 (da +70% a +60%) rispetto a quelli pre-summit, in un contesto in cui però come detto le emissioni globali continuano a vedere stime di crescita, anche se moderate – i nuovi NDC porterebbero infatti le emissioni a crescere, nel 2030, “solo” del +5% rispetto al 2019 e non più del +11%.
Durante preCOP26 a Milano l’inviato speciale degli Stati Uniti John Kerry ha lasciato intendere che prima di COP26 e durante la conferenza alcuni paesi potrebbero comunicare nuovi obiettivi e nuovi NDC più ambiziosi. Questo lavoro sotterraneo della diplomazia climatica americana e occidentale sembra, come visto, aver già portato dei frutti e potrebbe forse rilanciare la speranza verso COP26. Solo e più che mai la politica, a questo punto, può invertire il trend ed evitare quello che sembra da tempo – e ancor più dall’uscita del report IPCC di agosto – l’annunciato fallimento dell’obiettivo minimo dell’Accordo di Parigi, contenere la temperatura globale entro +1,5°C.