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Dic

Scaldiamo verdure, non il pianeta.

Uno dei temi che si sta dimostrando sempre più presente e pressante nel corso degli eventi organizzati durante le Conferenze delle Parti è il quello del cibo. Dopo la svolta avvenuta la sorsa COP (COP23 di Bonn) su questo tema, anche quest’anno agricoltura e diete sono risultati trasversali e spesso aggiunti all’ordine del giorno di questi eventi paralleli alle negoziazioni.

E’ ormai risaputo, infatti, che la nostra alimentazione sia causa di circa un quarto delle emissioni totali (sia direttamente che al livello indiretto a causa di deforestazione e cambiamenti nella produttività e usi del territorio). Questo fa si che il cambiamento climatico si leghi a due grandi macro-temi: la lotta alla fame e il tema della sostenibilità (e fattibilità) di diete il “stile occidentale” in futuro.

Il primo tema esprime un problema estremamente lineare: il riscaldamento del pianeta farà decrescere la produttività della maggior parte dei prodotti agricoli nella maggior parte delle zone del mondo, per cui ci sarà meno cibo, per sfamare una popolazione che sta continuando a crescere, e arriverà intorno ai 9 miliardi nel 2050. Oltre a questo, il fenomeno del riscaldamento globale è correlato anche all’incremento della variabilità dei fenomeni atmosferici e dello sviluppo di eventi estremi (come ad esempio le ondate di caldo, siccità o le bombe di pioggia), fattori che influenzano tutti gli elementi che definiscono il concetto di Sicurezza alimentare (produzione, accesso contenuto e assorbimento dei nutrienti). Questi fenomeni si stanno già sviluppando in molte zone del nostro pianeta, impattando la produzione agricola al punto che il livello globale di persone che non hanno abbastanza accesso al cibo sta aumentando nuovamente negli ultimi tre anni. Oltre al fatto che questo porterà più persone a soffrire la fame a livello assoluto, è stato anche dimostrato che un ridotto accesso al cibo può essere positivamente correlato con lo sviluppo di guerre e conflitti, aumentando la vulnerabilità e l’insicurezza di ampie fasce della popolazione in diverse zone del mondo.

L’altro tema, correlato, è la questione della sostenibilità delle diete. Molte fonti, infatti, riportano il fatto che se la nostra alimentazione fosse più basata sul consumo di verdure che sul consumo di carne, riusciremmo a avere più cibo per più persone, con un impatto minore in termini di emissioni. La riduzione del consumo della carne, specialmente quella di bovina, a massimo una volta a settimana, potrebbe portare a drastiche riduzioni di emissioni, oltre ad avere un generico effetto benefico sulla salute delle persone. Inoltre, se tutto il mondo cominciasse a consumare tanta carne quanta ne consumiamo nei paesi occidentali (transizione che sta effettivamente avvenendo nei paesi in via di sviluppo), si creerebbe una necessità di aumentare la produzione agricola tra il 60 e il 110%. Questo obiettivo è difficilmente conciliabile con le tecnologie di oggi, dato che l’aumento di produzione agricola su cui basiamo il nostro stile odierno (causato dalla cosiddetta Rivoluzione Verde diffusasi tra gli anni ’40 e gli anni ’70 del secolo scorso), si basava principalmente su un uso massiccio di fertilizzanti (fosforo e azoto) il cui ciclo è oggi alterato ben oltre i limiti del pianeta (come riporta lo Stockholm Resilience Centre già nel 2015). Questo tipo di richiesta potrebbe attuarsi solo se ci fosse un cambiamento tecnologico repentino, di cui ora non disponiamo. Oppure un cambiamento delle nostre richieste.

Cosa possiamo fare dunque per combattere questi trend di diffusione di fame nel mondo e sviluppo di cambiamento climatico? Cercare di ridurre il consumo di prodotti di origine animale, carne rossa in prima istanza, è sicuramente un primo passo. Ovviamente per raggiungere obiettivi così importanti e complessi non esiste un’unica soluzione, ma sicuramente monitorare e adattare la propria dieta alle sfide che il nostro tempo ci sta ponendo può essere un primo passo verso la giusta direzione.

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