cop27
20
Nov

SENZA SOTTRARSI AD ALCUNA IPOTESI

La mente umana non è programmata per rispondere con istinto, urgenza e tempestività a minacce lontane nel tempo e nello spazio, non tangibili. Tantomeno la politica. Il problema dei cambiamenti climatici è che nessuno di noi negli ultimi anni è rimasto turbato vedendo l’aumentare della concentrazione dei climalteranti in atmosfera, semplicemente perché non lo possiamo vedere. Ad occhio nudo, perlomeno. Ma tanto basta. Tanto è così lontano, tanto neanche si vede.

Eppure, un numero crescente di persone in giro per il mondo ha cominciato ad interessarsi al problema del riscaldamento globale e molte persone soffrono addirittura di eco ansia, soprattutto tra i più giovani. L’interesse, l’ansia e a volte l’azione pratica nascono da un convincimento, da un’informazione ricevuta: per colpa del nostro modo di produrre e consumare qualsiasi cosa, largamente basato sull’uso di fossili estratti da sottoterra con tecnologie profondamente invasive e sempre più costose, stiamo praticamente devastando l’equilibrio naturale del nostro pianeta e facendo del male a noi, agli animali, alle piante ma soprattutto – più conservativamente – al nostro mondo, alle nostre geografie.

Potrebbe non sembrare un problema finché leggiamo che la Siberia potrebbe diventare sempre più coltivabile e l’Artico sempre più navigabile, che in Inghilterra si produrranno ottimi vini e che forse in qualche paese lontano ci saranno problemi legati per esempio alla sparizione di isole e città dai nomi esotici – un altro problema del nostro cervello è che siamo programmati per essere eurocentrici. Potrebbe invece sembrare un problema bello grosso se ragioniamo in termini di sostenibilità delle catene alimentari, lotta alla povertà, mobilità forzata e del potenziale di tutti questi elementi di scatenare nuovi conflitti armati, cosa di cui davvero nessuno ha bisogno.

Leggendo e informandosi si viene a scoprire che un mondo con una temperatura cresciuta in media di due gradi alla fine di questo secolo, se non di più, risulterebbe sostanzialmente intollerabile a chiunque di noi. Forse qualcuno comincia a provare quel turbamento istintivo ora che almeno tre volte all’anno vediamo in tv e su internet immagini strazianti di interi paesi messi in ginocchio da disastri naturali, estremi in intensità e devastazione. Vediamo i video girati in Mozambico, in Pakistan, pensiamo all’Italia e cominciamo a fare due più due, il più facile dei conti. 

In quei paesi i conti li hanno fatti da diversi anni e fin troppo bene. Per quasi tre decenni il gruppo G77 all’interno delle Nazioni Unite, un coordinamento che tiene insieme la maggior parte dei paesi del mondo secondo i minimi comuni denominatori di non essere occidentali e soprattutto di non essere ricchi, ha portato avanti una battaglia di sopravvivenza chiedendo semplicemente che chi aveva causato il problema del clima pagasse almeno una parte delle conseguenze. C’è chi dice che i G77 chiedono soldi sempre e comunque, ma in questo caso ne hanno ben donde. Chiamiamole compensazioni (parola vietata), riparazioni (parola vietatissima), contributi sulla base di responsabilità comuni ma differenziate (questa in generale è la formula che non offende nessuno). 

Come? Per esempio, attraverso una maggiore contribuzione, in generale, alle politiche climatiche internazionali. Sta principalmente ai paesi ricchi mettere più soldi per ridurre le emissioni (e questo c’era già dal Protocollo di Kyoto, va bene), sta principalmente ai paesi ricchi mettere i soldi che servono per le azioni di adattamento dove sono più necessarie (e questo è diventato normale dirselo solo negli ultimi anni), starebbe ai paesi ricchi sollevare quelli poveri dal colmo dei colmi, il doversi indebitare per ricostruire dopo quei disastri (sembrerà assurdo ma questo invece non era mai stato detto  nettamente). 

Nella notte tra il 19 e il 20 novembre 2022 alla COP27 è accaduto una sorta di miracolo politico. Un allineamento cosmico per cui per una volta i paesi poveri sono riusciti a coordinarsi senza farsi distrarre da promesse occidentali; l’Europa – che tiene da morire alla propria immagine di leader sul clima – ha cambiato posizione in corsa come in un giro di valzer quando ha capito che un “no” non sarebbe passato inosservato; gli Stati Uniti non hanno mai giocato davvero la partita e quando c’era da giocarla si sono trovati soli su una posizione scomoda e con l’uomo più carismatico del negoziato, l’inviato speciale per il clima John Kerry, costretto dal covid in una esotica camera di hotel, lontano dalla bagarre. Insomma, dopo ore insonni si è giunti a un accordo che crea di fatto un nuovo pezzo dell’Accordo di Parigi sul clima: il fondo compensativo per perdite e danni. 

Un lungo applauso coronato da standing ovation nell’alba assonnata del centro congressi di Sharm el-Sheikh. Giornalisti che battono freneticamente agenzie sapendo già che verranno perse tra quelle sui mondiali di calcio. Non perdiamoci nella cronaca però – per quella ci sono i Bollettini COP di Italian Climate Network. 

Quello che dovrebbe farci sobbalzare, rispetto alla mediocrità delle cose del mondo e soprattutto di quelle politiche, è che quello che è successo a Sharm ha un impatto politico che va anche oltre gli anni che rimangono ancora da vivere a te che stai leggendo. Sì, proprio tu. L’Accordo di Parigi sul clima è il primo trattato internazionale tra Paesi che punta a raggiungere obiettivi concreti ben oltre la morte di tutti quelli che lo hanno firmato. Si parla della fine del secolo, e se sei nata o nato prima del 2000 potresti cominciare a immaginare a chi raccontare questa storia per assegnare dei compiti a casa.

Sul clima il mondo sembra immobile; eppure, una volta all’anno in un qualche centro congressi di chissà dove migliaia di delegati di tutti i paesi si incontrano per decidere del futuro in maniera pratica, al netto di tutte le sbandate e le incognite che la vita regalerà. Nessuno però mette più in discussione l’obiettivo finale ed il fatto che davvero si lavori su un arco di tempo di 85 anni dalla firma. Questo già di per sé dovrebbe suonare incredibile – lo è.

Per capire davvero quanto la decisione sul fondo compensativo di Sharm el-Sheikh sia importante per i destini del mondo basti pensare che, essendo stata presa sotto l’Accordo di Parigi, ne condivide le tempistiche. Il mondo ha quindi deciso senza opposizione di alcuno che per i prossimi 78 anni i paesi ricchi saranno chiamati – moralmente e formalmente – ad aiutare economicamente quelli poveri nelle ricostruzioni dopo i disastri che quella ricchezza odorante petrolio provoca e provocherà sempre di più. Potrebbe sorgere il dubbio che nei paesi occidentali a pagare le emissioni dei bisnonni e le nuove compensazioni al sud del mondo saranno innocenti nipoti e bisnipoti, con salari sempre meno adeguati a questa giusta e dovuta solidarietà. Potremmo interrogarci sui risvolti che questa novità avrà quindi in prospettiva, in termini di equità intergenerazionale e nella politica interna dei paesi ricchi. C’è abbastanza materiale per scrivere prime pagine e best-seller, ma ormai nella politica si crede così poco che una notizia del genere – “hanno davvero deciso di fare il fondo” – suona semplicemente irrealistica, quindi la si evita. Troppo intangibile, anch’essa.

Non è così intangibile per i governi che da gennaio dovranno capire come iniziare a pagare. Nessuno ne ha veramente voglia, ma non farlo sarebbe come rifiutare di fare un brindisi al matrimonio di un amico solo perché si ha un po’ di mal di pancia. Ormai i riflettori sono accesi, gli altri ospiti guardano. Magari non subito, magari senza finire il bicchiere, ma lo si fa. Un po’. Cercando di evitare sorsate troppo corpose o ghiacciate. Peccato che nel caso dei disastri dovuti al clima la situazione stia andando verso il peggio ed ogni nuovo sorso potrebbe disturbare lo stomaco – costare – più del precedente nell’arco di una lunga serata.

Oggi tutti i giornali dedicheranno un trafiletto alle prossime COP, a partire dalla COP28 di Dubai, al via tra meno di un anno negli Emirati Arabi. Poi ci sarà una COP in Europa orientale, ancora non si sa dove, poi la COP30 nel 2025 che Lula ha già proposto di ospitare nientepopodimeno che nella foresta amazzonica – sperando che questo non equivalga alla costruzione di un mega centro congressi dove proprio non ce ne sarebbe bisogno. Ma ci siamo detti che dobbiamo guardare oltre, all’obiettivo finale.

Nell’imprevedibilità di ogni futuro, se l’Accordo di Parigi vorrà arrivare vivo al 2100 (avrei a quel punto 111 anni, e tu?) dovrà essere sostituito, migliorato, integrato da una nuova generazione di trattati, sui quali i paesi devono cominciare a lavorare da subito. Un nuovo Accordo nel 2030, da lanciare in contemporanea con una nuova Agenda per lo sviluppo sostenibile? Un nuovo accordo nel 2050, che riparta dalla raggiunta neutralità climatica di molti grandi paesi per programmare i successivi 50 anni di politiche e salvare ciò che sarà rimasto del pianeta dal diventare un gigantesco deposito di CO2 antica, assorbita grazie alle tecnologie dell’epoca dei millennial e degli zoomers? Oppure una COP di metà secolo per scrivere le regole del controllo del clima dallo spazio?

Se il fine è quello di tenere fede agli obiettivi e preparare i compiti per chi ci sostituirà in corso d’opera, conviene iniziare a preparare il campo senza sottrarsi ad alcuna ipotesi. Possiamo usare tutta la nostra fantasia. Potrebbe essere che qualche potente senza troppe idee per sbaglio ci ascolti e ce le rubi.

Una riflessione libera e non il racconto di un negoziato, o forse no.

A cura di Jacopo Bencini.

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