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Nov

UN FOSSILE SI AGGIRA PER L’EUROPA: L’ENERGY CHARTER TREATY

Nella giornata del 23 novembre 2022 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che ripercorre la storia del controverso Trattato sulla Carta dell’Energia (Energy Charter Treaty, ECT) chiedendo infine alla Commissione di concertare con il Consiglio Europeo un’uscita coordinata dal Trattato per tutti i Paesi membri dell’UE che ne fanno ancora parte, in virtù degli obiettivi climatici comunitari e di una maggiore certezza del diritto. Ma cosa prevede questo trattato?

Per capire la ratio a monte dell’Energy Charter Treaty bisogna tornare all’inizio degli anni Novanta ed alla caduta dei regimi socialisti nella dissolta Unione Sovietica e nell’Europa orientale. Un desiderio di cooperazione economica, energetica e politica si univa alla necessità di proteggere investimenti (occidentali) nel settore dell’energia da eventuali instabilità politiche. Molti dei Paesi nati dalla caduta del socialismo stavano in quegli anni testando e affinando le loro istituzioni democratiche e tutto sembrava troppo acerbo e nuovo per garantire continuità di ritorno a investimenti sul medio-lungo periodo. Ecco, quindi, che nel 1994 a Lisbona viene lanciato il Trattato sulla Carta dell’Energia, che di fatto pone gli investimenti in energie nei Paesi aderenti sotto tutela da eventuali espropri, nazionalizzazioni, politiche statali invasive o lesive degli investimenti stessi, oltre che dei profitti previsti nei piani pluriennali di investimento. Un’epoca in cui la questione climatica non era centrale e proteggere investimenti fossili sembrava tutto sommato una buona pratica di cooperazione tra realtà che non si conoscevano ancora bene.

Il trattato è entrato in vigore nel 1998 e da allora ha protetto gli investimenti nel settore energetico di aziende private nei 53 Paesi firmatari, inclusa tutta l’Unione Europea – almeno fino al 2016, anno di uscita dell’Italia. La protezione consta nella possibilità per le aziende private di citare in giudizio tramite arbitrato internazionale il Paese dove si è investito capitale in estrazione, produzione ed altre attività nel caso in cui specifiche politiche di quel Paese impediscano il previsto ritorno economico – ad esempio, nel caso in cui un Governo decida per lo stop alle trivellazioni entro le 12 miglia dalla costa a concessioni già avviate. Questo precisamente il caso dell’Italia, che a seguito del referendum sulle trivellazioni si trovò citata in giudizio dall’azienda britannica Rockhopper, concessionaria delle superfici e dei permessi a trivellare. L’Italia fu sconfitta in giudizio e costretta a versare all’azienda ben 190 di euro milioni oltre interessi, per un totale stimato di 250 milioni, €4,20 circa a cittadino italiano. Una vicenda e una cifra sconvolgente, di molto superiore all’investimento iniziale di Rockhopper, che portò l’Italia ad uscire, nel 2016, dal trattato. Ma servì a qualcosa?

No. Uno dei punti politici più delicati ruota, infatti, intorno all’articolo 47 del trattato, che prevede che la protezione con possibilità di ricorso ad arbitrato si estenda per venti anni agli investimenti attuati fino al giorno dell’uscita formale del Paese; in sintesi, un investimento in estrazione di petrolio del 2006, per esempio, gode di protezione legale da azioni avverse del Governo del Paese ospitante fino al 2026. L’Italia è quindi uscita dal trattato ma non è stato possibile evitare di liquidare Rockhopper dei mancati introiti. Sorte simile, su cifre assai più ingenti, per la Federazione Russa che nel 2009 uscì dal trattato dopo essere stata obbligata dall’arbitrato a versare alla compagnia Yukos fino a ben 50 miliardi di dollari, probabilmente il risarcimento di questo tipo più alto della storia. La sentenza fu poi annullata, rimandata ad una corte olandese, e in seguito riesumata nel 2021. Una vicenda giudiziaria estremamente costosa e ancora non chiusa.

(estratto dal testo del Trattato sulla Carta dell’Energia, articolo 47)

Intorno alla validità della protezione tramite arbitrato dell’ECT rispetto alle normative comunitarie regna una certa confusione giuridica. Nel settembre 2021, tuttavia, la Corte di Giustizia Europea ha espresso un pronunciamento nel quale stabilisce che quanto previsto dal trattato non possa applicarsi a contese tra Stati Membri dell’Unione Europea (ossia non possa applicarsi nel caso in cui un’azienda di uno Stato Membro citi in giudizio un altro Stato Membro), per evidente superiorità gerarchica del diritto comunitario in materia di mercato ed energia rispetto ad accordi multilaterali. La presunta inapplicabilità del trattato nell’Unione Europea ne smonta fortemente il potenziale a livello globale, anche se ad oggi il pronunciamento della Corte non sembra aver fermato i tentativi di citazione in giudizio, tantomeno le richieste di adesione al trattato da parte di nuovi Paesi extra-europei.

Il disallineamento tra un trattato internazionale che protegge gli investimenti fossili dalle politiche pubbliche ed il Green Deal Europeo è di assoluta evidenza. La Commissione Europea ha condotto, tra il 2017 e giugno scorso, un lavoro volto alla revisione delle clausole più controverse del trattato, cercando un accordo di massima tra gli Stati Membri. Nel giugno 2022 è stata presentata ai Governi una proposta di revisione che prevedeva un’uscita graduale degli investimenti fossili dalla protezione giuridica entro 10 anni dall’approvazione della revisione (quindi entro il 2033), uno stop a nuovi investimenti fossili a partire da 9 mesi dall’approvazione (quindi a partire di fatto dal 2024) e l’inclusione di nuove tecnologie basate su idrogeno e cattura e stoccaggio del carbonio tra gli investimenti protetti. Una revisione abbastanza controversa.

Talmente controversa da scatenare un effetto-valanga. Dopo pochi giorni dalla presentazione della proposta, il Governo polacco ha presentato al Sejm (camera bassa del Parlamento polacco) una proposta di uscita dal trattato. Il 14 ottobre è arrivata la comunicazione di uscita della Spagna, il 19 ottobre quella dei Paesi Bassi, il 21 ottobre – a margine del Consiglio Europeo – quella della Francia, per bocca del Presidente Macron in persona. Voluto o non troppo previsto, questo coordinamento politico tra attori di peso ha facilitato l’adozione della risoluzione del Parlamento Europeo del successivo 23 novembre, che chiede di fatto alla Commissione di arrivare ad un’uscita ordinata di tutti gli Stati Membri ancora parte al trattato, in virtù degli obiettivi climatici al 2030 e al 2050 e della certezza del diritto, andando ad erodere sempre più le fondamenta di uno strumento obsoleto che potrebbe però continuare ad influenzare in negativo le politiche climatiche europee per i prossimi venti anni.

Articolo a cura di Jacopo Bencini, Policy Advisor e UNFCCC Contact Point

Foto di copertina: Energy Charter Treaty, energycharter.org

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