COP27
20
Nov

COP27, UNO SGUARDO POLITICO AL NEGOZIATO

Non ci si attendeva certo le Tavole della Legge, che Mosè ricevette sulle cime del Sinai, ma alle 9 del mattino, quando si chiude il ventisettesimo negoziato ONU della Conferenza delle Parti di Sharm-el-Sheikh, uno dei peggiori risultati di sempre in termini temporali, secondo solo alla fallimentare conferenza di Madrid, si capisce che c’è un unico comandamento: accelerare il lavoro sulla mitigazione.

Il Sharm el-Sheikh Implementation Plan è un documento povero, con due decisioni importanti, quella dell’adozione del fondo Loss&Damage (Perdite e Danni) che apre nuovi orizzonti per una cooperazione multilaterale, e quella della riforma del sistema finanziario delle Banche multilaterali e non solo. 

Male, invece, sui nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni che avrebbero dovuto spingere ad aumentare l’ambizione negli NDC dei paesi membri. Rimane tutto come a Glasgow, anzi la sensazione è quella di andare indietro.

La geopolitica del clima

Uno degli aspetti più importanti di questa COP27 sono gli equilibri geopolitici. Abbiamo visto un’Europa pronta ad approvare un fondo per il Loss&Damage nonostante avesse proposto una soluzione differente (in quanto il fondo avrà tempi di approvazione molto lunghi), in cambio di un aumento dell’ambizione sulla mitigazione che non ha ottenuto, ma in ogni modo ha accettato pur di non vedere fallire il negoziato. 

Si è dimostrato come il ruolo dal basso di attivisti e delegati di piccoli paesi, se congiunto e ben orchestrato, può portare a risultati concreti. e ora apre a future importanti collaborazioni politiche e mediatiche sulla finanza climatica e sulla mitigazione. In tanti guardano a Lula come un futuro faro nei negoziati, con il Brasile  come nuovo leader climatico.

Abbiamo assistito al lavoro di erosione del negoziato da parte del mondo dell’oil&gas e dei petrostati, che hanno puntato i piedi su ogni decisione anche grazie alla Presidenza egiziana di COP condotta da Sameh Shoukry, Ministro degli esteri egiziano e uomo di massima fiducia del Presidente al-Sisi, che ha favorito Arabia Saudita (che ha versato 22 miliardi nelle casse del Cairo nel solo 2021) e paesi Opec. Da un paese dove Eni e Chevron hanno investimenti record per l’ampliamento dell’estrazione di gas dal mar Mediterraneo non ci si poteva certo attendere un approccio diverso. Ma numerosi delegati hanno denunciato l’atteggiamento di non cooperazione e di ostruzionismo di Shoukri. «La presidenza egiziana ha prodotto un testo che protegge chiaramente i petrostati del petrolio e del gas e le industrie dei combustibili fossili. Questa tendenza non può continuare negli Emirati Arabi Uniti il prossimo anno», ha aggiunto in nota stampa Laurence Toubiana, architetta dell’Accordo di Parigi e Presidente della European Climate Foundation.

Usa, premio fossile COP27

Nota di demerito per gli Stati Uniti e il loro Inviato speciale per il clima, John Kerry, in hotel con il Covid proprio durante le ultime ore di lavori negoziali. Sebbene dall’Indonesia il presidente Biden abbia portato a casa un nuovo accordo di cooperazione legato al clima con la Cina, gli Usa hanno giocato un ruolo attendista, per nulla coraggioso, piatto e spesso spostato sulle posizioni del mondo dell’oil&gas. Un immobilismo inficiato dall’incertezza politica domestica (la conferma della sconfitta alla Camera del Congresso è arrivata solo a metà della seconda settimana di negoziati) e da uno scenario geopolitico estremamente complicato, peggiorato dal fatto che a livello internazionale Usa e Cina non si sono parlati per due anni e quindi manca un lavoro di posizionamento chiaro. Biden non è né Alexandra Ocasio Cortez nè Al Gore, e manca sul tema clima di un linguaggio forte sul tema e un appeal verso un popolo, quello americano, che ha ancora un numero altissimo di negazionisti del clima. Secondo vari intervistati, Biden non ha spinto alcuni suoi temi di battaglia, come il Methane Pledge, sostenendo invece un piano legato ai mercati del carbonio come fonte di finanza climatica che, però, ha visto ampia opposizione dai paesi meno sviluppati e dalla società civile. C’è poi il tema degli impegni economici: nonostante la raffica di “accordini” bilaterali o multilaterali, l’America (che nel 2019 non ha partecipato al rifinanziamento del Green Climate Fund), ha un ammanco di 32,4 miliardi di dollari l’anno. Dei 100 miliardi di dollari l’anno gli USA dovrebbero sborsarne circa 40, data la responsabilità storica nel cumulato delle emissioni, ma nel 2020 ne hanno stanziati solo 7,6 miliardi, circa il 19% di quanto la responsabilità storica imporrebbe. Il problema è che il denaro deve essere stanziato dal Congresso. L’anno scorso l’amministrazione Biden ha richiesto 2,5 miliardi di dollari in finanziamenti per il clima, ma si è assicurata solo 1 miliardo di dollari, quando ancora i Democratici controllavano entrambe le Camere. Con i Repubblicani, che in gran parte si oppongono agli aiuti per il clima, pronti a prendere il controllo della Camera a gennaio, le prospettive che il Congresso aumenti il supporto alla finanza climatica sono minime.

Il grande messaggio che però arriva da COP è la richiesta dell’Europa di includere la Cina nei paesi industrializzati, e dunque passare da stato ricevente a stato finanziatore della finanza climatica. Storicamente la Cina fa parte dei paesi in via di sviluppo secondo il principio che, sì, emette tanto, ma ha iniziato solo recentemente. Siamo vicini al momento in cui il Dragone entrerà nel novero delle nazioni sviluppate. La rielezione di Xi Jinping, che aspira a confermare la Cina come super-potenza, e la grande pressione generata a Sharm el-Sheikh, hanno aperto un dibattito che difficilmente potrà essere ignorato.Se vogliono essere considerati una superpotenza mondiale, devono condividereoneri ed onori. E questo, nell’ambito climatico dell’Accordo di Parigi, significa pagare per aiutare i paesi più poveri e vulnerabili. Affinché ciò avvenga servirà pressione anche da parte dei paesi asiatici e africani che ricevono appoggio da Pechino, specie se vogliono vedere potenziata la finanza climatica e gli aiuti tramite il fondo per il Loss&Damage. 

La riforma delle Banche di sviluppo multilaterali 

È tempo di riformare le Banche di Sviluppo Multilaterali (MDBs). Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, le banche regionali come Asian Development Bank, African Development Bank, oggi non sono attrezzate con un chiaro mandato per erogare credito agevolato per progetti legati ai cambiamenti climatici.

Hanno dei limiti per sostenere i paesi meno sviluppati (a causa dell’alto debito o dei procedimenti di default) o non lavorano attivamente in questa direzione, come ad esempio la Banca Mondiale guidata dal negazionista climatico David Malpasse. Queste MDBs possono movimentare centinaia di miliardi di dollari per le rinnovabili, l’economia circolare, la resilienza, creando una leva di migliaia di miliardi da parte del settore finanziario privato. Infatti, se investono le grandi MDBs, gli istituti finanziari internazionali privati sono maggiormente interessati poiché si riduce il rischio e si offre una maggiore certezza sulla direzione degli investimenti. 

Per questo il Sharm el-Sheikh Implementation Plan “invita gli azionisti delle banche multilaterali di sviluppo e delle istituzioni finanziarie internazionali a riformare le pratiche e le priorità delle MDBs, allineare e aumentare i finanziamenti, garantire un accesso semplificato e a mobilitare finanziamenti per il clima provenienti da varie fonti. Incoraggia le banche multilaterali di sviluppo a definire una nuova visione e modello operativo, canali e strumenti adeguati allo scopo di affrontare adeguatamente l’emergenza climatica globale, compreso l’utilizzo di una gamma completa di strumenti, dalle sovvenzioni alle garanzie e agli strumenti diversi dal debito, tenendo conto dell’onere del debito e per affrontare la propensione al rischio, al fine di aumentare sostanzialmente i finanziamenti per il clima”. 

La palla si sposta dunque alle riunioni dei consigli di amministrazione delle banche nella primavera 2023, che si prevedono incandescenti. Ma la riforma appare inevitabile e con chiaro mandato dei 196 paesi ONU. «Gli incontri finanziari internazionali del prossimo anno diventano quindi critici», si legge in una nota stampa del think tank Ecco. «Importante sarà supportare e fare leva sull’iniziativa di Bridgetown delle Barbados, appoggiata ora dalla Francia, che presenta un programma ambizioso di riforma [delle banche e finanza internazionale]. I paesi G7 e G20 sono chiamati all’azione. La Presidenza italiana del G7 nel 2024 sarà fondamentale per implementare queste riforme».

Senza questa riforma non ci sarà una svolta reale nella decarbonizzazione globale. Altro che il gap dei 100 miliardi di dollari. Nel testo si dice esplicitamente che servono come minimo 4 mila miliardi di dollari l’anno, almeno fino al 2030, se si vogliono raggiungere le emissioni nette zero entro il 2050, mentre i paesi più poveri hanno bisogno complessivamente di 5,8 mila miliardi di dollari per i propri NDCs. La riforma finanziaria, i miglioramenti dei carbon credit e l’applicazione della Bridgetown agenda sono la chiave del successo.

Verso COP28

Il successo del Loss & Damage ha aperto speranze e prospettive. «Il fondo per perdite e danni, un sogno alla COP26 dello scorso anno, è sulla buona strada per iniziare a funzionare nel 2023», ha dichiarato Laurence Toubiana, l’architetta dell’Accordo di Parigi e Presidente della Europen Climate Foundation. «C’è ancora molto lavoro da fare sui dettagli». E i dettagli non sono banali per la commissione creata ad-hoc che dovrà relazionare il prossimo anno. Chi sono gli stati “più vulnerabili”? E chi paga? Quanto servirà per il fondo? Ci saranno condizionalità per evitare che dittatori e furbacchioni si mettano direttamente in tasca le risorse economiche? E quali meccanismi di trasparenza saranno adottati? 

Nei prossimi 12 mesi però si deve spingere di nuovo su obiettivi ambiziosi che contribuiscano a migliorare i nuovi NDCs degli Stati membri. A Dubai si dovrà decidere di raggiungere un picco delle emissioni al 2025 o almeno ben prima del 2030, e infine indicare il phase-out (l’abbandono) dei sussidi alle fonti fossili al 2040 e un nuovo obiettivo sulle fossili (picco al 2025 con graduale phase out con data di scadenza).  La COP27 riconosce che per mantenere l’obiettivo di 1,5°C è necessaria una riduzione delle emissioni del 43% al 2030 rispetto al 2019. Con gli impegni di decarbonizzazione attuali tuttavia il taglio di emissioni sarebbe solo dello 0,3% al 2030 rispetto al 2019. Per questo gli stati che non hanno ancora aggiornato i loro obiettivi di decarbonizzazione (NDC) sono invitati a farlo entro il 2023. Non tutto è dramma, però. Le rinnovabili guadagnano un posto al sole ai negoziati e nel Sharm el-Sheikh Implementation Plan. Oltre ad aver avuto di gran lunga maggiore rilievo ai tanti eventi di questa COP27 rispetto alle fonti fossili e al nucleare. Finalmente solare, eolico, etc trovano ampio spazio nel testo finale, che afferma come “si sottolinei l’urgente necessità di riduzioni immediate delle emissioni globali di gas a effetto serra da parte delle parti in tutti i settori applicabili, anche attraverso l’aumento delle energie rinnovabili e a basse emissioni, i partenariati per una transizione energetica (JETP) giusta e altre azioni di cooperazione”. Hanno suscitato molto interesse le JET-P, le Just Energy Transition partnership, collaborazioni multilaterali per progetti di energie rinnovabili ad impatto sociale – come quello da 20 miliardi siglato a Jakarta per i prossimi 3-5 anni da Europa e USA – sia da garanzie con fondi pubblici che attraverso la finanza privata, facilitata dal Glasgow Financial Alliance for Net Zero (GFANZ) Working Group creato lo scorso anno.

La Natura ha poco spazio

Nessuna menzione nel testo finale alla Convenzione sulla Biodiversità (CBD) che si terrà a dicembre a Montreal e che dovrebbe consegnare un accordo quadro di grande rilevanza sul tema che guiderà l’azione delle nazioni fino al 2030.  Sebbene per la prima volta in un accordo COP si parli di agricoltura (paragrafo XV del documento) lanciando un piano di implementazione quadriennale per ridurre le emissioni di gas serra e aumentare la sicurezza alimentare, si evita di menzionare il ruolo che l’accordo sulla biodiversità avrà per preservare foreste, suolo e oceano (altro debutto importante in un testo COP) e aiutare nell’assorbimento e stock di CO2. La piattaforma mediatica di COP27 avrebbe aiutato ad aumentarne la visibilità e a rilanciare importanti incontri ministeriali di alto livello sul tema. L’unico a riportare l’attenzione sulla CBD è il Segretario Generale ONU, Guterres, che nel suo discorso di chiusura ribadisce la necessità di un accordo ambizioso sulla biodiversità, che contribuirà nella sfida globale sul clima. Al momento però non sono attesi capi di stato alla conferenza, segnale che l’attenzione politica sul tema è bassa. A Montreal si rischia di ottenere poco o nulla di concreto.

Articolo a cura di Emanuele Bompan, giornalista e socio Italian Climate Network

Immagine di copertina: crediti UNFCCC

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