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Dic

Side Event – La voce delle donne nella comunità indigena

di Marta Ellena

Storie di donne, empowerment femminile e clima alla COP21 sui cambiamenti climatici di Parigi: si è svolto il 7 dicembre scorso l’evento collaterale ai negoziati sulla questione femminile, promosso dal WECAN’s Women’s Climate Action Agenda.

 “We need to plants tree!”: Neema Namadamu viene dalla Repubblica Democratica del Congo, dove è presente seconda foresta più grande del mondo, dopo quella Amazzonica. È fondamentale che questo patrimonio venga protetto, e proprio per questo le donne congolesi si stanno impegnando per esercitare pressioni affinché diminuisca il tasso di deforestazione e aumenti la quantità di alberi presenti sul territorio, che fungono da polmone per il nostro Pianeta. Il sistema sta collassando. E’ un problema di portata globale. Secondo Neema, per agire in modo rapito ed efficiente la migliore soluzione è una alleanza forte tra i vari paesi.

 “Le imprese – e non solo – continuano ad inquinare la nostra aria ed il nostro spazio vitale; dobbiamo essere sicuri di andare nella direzione di un carbon neutral energy future”. Secondo Angelina Galiteva della Renewables 100 Policy Institute “le donne possono essere la soluzione”. Infatti, potrebbe essere più facile per le donne avere un ruolo attivo nell’educazione ed essere più disponibili ad avere un approccio di shared-knowledge, ovvero di condivisione della conoscenza.

Le donne della comunità di Sarayaku in Ecuador – per esempio – hanno avuto una forte influenza per quanto riguarda i processi decisionali della loro comunità. Hanno scelto di proteggere, con la loro voce e presenza, le riserve e l’ambiente in cui vivono. Patricia Gualinga, una delle esponenti più emergenti della comunità di Sarayaku, ha riferito che alla base del loro sapere c’è una visione ottimistica. “Gli anziani avevano predetto il futuro ed avevano esordito dicendo che negli anni a venire gli esseri umani avrebbero distrutto il pianeta con le loro stesse mani. Noi, come tutti gli individui presenti nella nostra comunità, siamo state criminalizzate”. Il territorio indigeno deve essere libero da questa tipologia di sfruttamenti, e questa è una visione comune. Proprio per questo è stata messa in piedi una proposta, chiamata: Selva viviente. Quest’ultima prevede il blocco delle estrazioni e dei settori che minacciano maggiormente gli ecosistemi. “Necessitiamo di una trasformazione profonda; la nostra vita non è negoziabile!”, il governo lo deve capire. È evidente che questa tipologia di pensiero si trasmette dalle tribù dell’amazzonia ai Masai del Congo, come una vera staffetta.

Viene dall’Oklahoma l’indiana Casey Camp, della Ponca Tribe of Indians of Oklahoma. Ricorda l’importanza che il riferimento alle donne e alle comunità indigeni rimanga nel preambolo del testo finale dell’Accordo di Parigi. Isis Alvarez, della Global Forest Coalition, ha inoltre aggiunto che è necessario un lavoro di coalizione che difenda i diritti umani, citando un esempio proveniente dal suo paese d’origine, la Colombia. Nel 2013, infatti, ricorda quello che definisce un periodo nero per gli agricoltori locali. In seguito all’approvazione di una legge scaturita da un accordo tra il governo colombiano e gli Stati Uniti sono state dichiarati illegali le sementi degli agricoltori, favorendo le grandi aziende produttrici di alimenti geneticamente modificati (come Monsanto Company). Proprio per questo motivo quantità enormi di riso furono bruciate. “Le multinazionali stanno minando la vivibilità delle persone”, dice la signora Alvarez. Le donne hanno dato il massimo per farsi sentire negli interventi ed hanno cercato, per anni, di essere integrate nel lavoro nelle fattorie, ma la maggior parte del lavoro è tutt’ora svolto dagli uomini. Il problema principale è che le donne, in queste comunità, non hanno alcun supporto.

A tal proposito, Osprey Orielle Lake, la fondatrice e direttrice esecutiva dellaWomen’s Earth & Climate Action Network, ha affermato che “dobbiamo smettere di avere un approccio corporativo, dobbiamo cambiare il modo di pensare. C’è la necessità di farsi sentire con le proprie organizzazioni, e chiedere supporto al governo”.

Felix Santi, fondatore di una NGO mirata per supportare i diritti della popolazione indigena dei Sarayaku, e José Gualinga, hanno raccontato la loro azione locale: la Living Forest Proposal è volta alla difesa della foresta, per prendersi cura e garantire un futuro migliore alle generazioni a venire. La Selva Viviente Pachamama Madre Tierra riguarda più nello specifico la creazione di un network sulla base dell’accumulo di conoscenze interconnesse tra le varie comunità.

L’obiettivo alla base è il riconoscimento del territorio dei Sarayaku come ”patrimonio culturale di biodiversità dell’Ecuador e del popolo che ci abita”. Se ciò dovesse avvenire significherebbe implicitamente la liberazione dalle estrazioni di petrolio.

Una ulteriore iniziativa è stata chiamata One Vivid, vivere bene: èincentrata sull’amministrazione della foresta in modo sostenibile. Il consolidamento ed uno sviluppo sostenibile, in quest’ultima, sono visti come la base per un futuro bilanciato con la natura circostante. Ciò che scaturisce dal loro intervento è che prima di tutto bisogna considerare il Diritto alla Natura. Infatti, quando l’essere umano prende il sopravvento, tale diritto viene meno. Solo quando si pone la selva al primo posto, ci può essere un adeguato scambio economico, politico, culturale ed educativo: questo è il messaggio che la comunità dei Sarayaku vuole far trapelare, per garantire un futuro degno e adeguato alle generazioni future.

Se loro sono giunti ad una conclusione così saggia, cosa scaturirà dall’agreement che i delegati delle varie nazioni stanno discutendo in questo momento?

di Marta Ellena

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