Ambiente, Clima e Diritti: ultimi sviluppi da UNEA-5
UNEP e UNEA
Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (United Nations Environment Programme – UNEP), è stato istituito dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1972 in seguito alla Conferenza di Stoccolma sulla protezione dell’ambiente. Con sede principale a Nairobi, Kenya, ha il mandato di raccogliere e valutare dati ambientali ad ogni livello e di coordinare lo sviluppo di strumenti politici per la protezione dell’ambiente. Dal 2013 l’UNEP è stata affiancata dall’Assemblea per l’ambiente delle Nazioni Unite (United Nations Environment Assembly – UNEA), con il compito di monitorare e valutare l’effettivo impegno delle singole nazioni in ambito di gestione degli impatti ambientali dei cambiamenti climatici, gestione delle sostanze chimiche, sviluppo delle tecnologie verdi e transizione verso una green economy.
Con la creazione dell’UNEA si è cercato di assicurare anche il maggior coinvolgimento della società civile nei processi decisionali nel quadro di lavoro dell’UNEP, e di riformare la governance internazionale per una gestione più efficace e più efficiente delle politiche ambientali. Si è data piena attuazione alla Conferenza di Rio+20, a conclusione della quale gli Stati si erano impegnati a rafforzare il ruolo dell’UNEP come autorità ambientale principale, con l’obiettivo di definire l’agenda globale per l’ambiente e di promuoverne una realizzazione coerente.
I RISULTATI DI UNEA-5 E LE IMPLICAZIONI PER LA SOCIETÀ CIVILE E I DIRITTI UMANI
La quinta riunione dell’UNEA si è svolta a Nairobi dal 28 febbraio al 4 marzo, in un contesto drammatico. La risposta della comunità internazionale all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è stata quella di una rafforzata fiducia nel multilateralismo. Lo stesso è valso anche per l’UNEA, che ha dimostrato come i negoziati internazionali, pur con le loro falle, siano un meccanismo rilevante per conseguire risultati concreti. Le risoluzioni approvate sono infatti un passo avanti importante per affrontare con un approccio olistico le sfide attuali, strettamente legate tra loro: cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, inquinamento e minacce alla salute umana.
Accordo sulla plastica
La notizia che ha avuto maggiore risonanza è sicuramente quella dello storico accordo per porre fine all’inquinamento da plastica. I 175 Stati Membri presenti hanno infatti adottato una risoluzione che pone le basi per negoziare un trattato globale legalmente vincolante. Nel dettaglio, la risoluzione istituisce un comitato intergovernativo di negoziazione che avvierà i lavori quest’anno, con l’obiettivo di finalizzare un accordo entro il 2024.
Considerando che il 99% della plastica è di origine fossile ed è responsabile del 5% delle attuali emissioni globali, con impatti disastrosi su ecosistemi e sulla salute umana, e che senza un’inversione di rotta la sua produzione è destinata a raddoppiare prima del 2035, non stupisce che la direttrice esecutiva dell’UNEP l’abbia definito come “il più importante accordo multilaterale sull’ambiente dopo quello (sul clima) di Parigi”.
Una nota importante è che il testo riguarderà l’intero ciclo di vita della plastica, dalla produzione al design fino allo smaltimento, e spingerà a una maggiore cooperazione tecnica e di capacity building tra paesi: un’ulteriore conferma della necessità di creare soluzioni multilaterali efficaci per contrastare fenomeni complessi che travalicano i confini geografici.
Questo però non è che il primo passo, seppur cruciale, di un lungo processo negoziale che avrà ricadute importantissime anche in ambito di diritti umani. Il testo finale sarà davvero efficace solo se prevederà meccanismi di monitoraggio e rendicontazione trasparenti, nonché strumenti di finanziamento adeguati, punto fondamentale per assicurarsi che non vengano adottate false soluzioni agli impatti dell’inquinamento da plastica su ecosistemi e persone. Ma i benefici di un’implementazione corretta sarebbero molteplici. Come affermato da Inger Andersen, Direttore Esecutivo dell’UNEP, ripensare il ciclo della plastica nell’ottica dell’economia circolare permetterebbe entro il 2040 di: ridurre il volume di rifiuti plastici negli oceani di oltre l’80% e la produzione di plastica da materiali vergini del 55%; risparmiare 70 miliardi di dollari statunitensi; ridurre le emissioni di gas serra del 25%; creare 700.000 posti di lavoro, principalmente nel Global South.
Un altro punto chiave della risoluzione, per cui si è battuta la società civile, è la necessità di integrare nelle politiche il sapere tradizionale delle popolazioni indigene e locali. Esse, oltre a poter dare un enorme contributo grazie alla loro esperienza in soluzioni di economia circolare, sono tra le comunità più colpite dalle conseguenze del degrado ambientale provocato dall’inquinamento da plastica, dall’estrazione e la produzione fino allo smaltimento.
Soluzioni basate sulla natura
In un altro risultato senza precedenti di questa sessione di UNEA, i paesi si sono finalmente accordati su una definizione formale di soluzioni basate sulla natura. Il testo approvato le definisce “azioni volte a proteggere, gestire in modo sostenibile e ripristinare gli ecosistemi naturali o alterati, (azioni) che rispondono alle problematiche sociali in modo efficace e adattivo, assicurando al contempo benessere umano, resilienza degli ecosistemi e benefici in termini di biodiversità”. Inoltre, la risoluzione ne riconosce il ruolo fondamentale nella risposta ai cambiamenti climatici e invita l’UNEP a supportarne l’implementazione.
Le soluzioni basate sulla natura sono in grado di conciliare il benessere degli esseri umani con il ripristino della biodiversità e il funzionamento degli ecosistemi, e pertanto la loro inclusione negli accordi internazionali è da tempo promossa dalla società civile. Ma è la prima volta che il concetto viene discusso e concordato a una conferenza multilaterale. Ci si era andati vicino durante la recente COP26, in cui si è riconosciuto il ruolo della natura per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, ma il richiamo alle soluzioni basate sulla natura è stato poi rimosso dal testo finale. La decisione dell’UNEA è quindi un grosso passo avanti, e fa inoltre sperare che queste soluzioni vengano inserite nel Quadro Globale per la Biodiversità post-2020. Si tratta di un piano che fisserà dei target per preservare e proteggere la natura e i benefici che da essa derivano, con l’obiettivo di arrestare la perdita di biodiversità entro il 2030 e ripristinarla entro il 2050. Il testo finale sarà discusso in occasione della COP15 sulla biodiversità a Kunming, in Cina (25 aprile-8 maggio 2022).
Anche questo testo stabilisce che le politiche vanno elaborate includendo le prospettive delle popolazioni indigene e locali. È necessario infatti il loro previo consenso informato se le azioni intraprese possono riguardarle. Ad oggi, gli accordi multilaterali non hanno garanzie sufficienti sulla tutela dei diritti umani, e ciò pone ancora tante persone a rischio di esproprio. Sarà quindi fondamentale, in fase di implementazione, riconoscere e tutelare i diritti fondiari, dato che molto spesso le soluzioni basate sulla natura intaccano i territori delle popolazioni indigene senza alcun riguardo per i diritti di chi vi risiede.
Benessere animale, ambiente e sviluppo sostenibile
Un’altra risoluzione pionieristica è quella sul “Legame tra benessere degli animali, ambiente e sviluppo sostenibile”, la prima a includere un riferimento esplicito al benessere animale. Il testo approvato riconosce il ruolo del benessere animale nel far fronte ai problemi ambientali, conseguire gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals – SDGs) e promuovere “One Health, l’approccio che riconosce l’interconnessione e interdipendenza tra salute umana, animale e ambientale.
Inoltre, la risoluzione invita l’UNEP a stilare un rapporto sul tema in stretta collaborazione con la FAO, l’OMS, l’Organizzazione mondiale della sanità animale (OIE) e il Gruppo di esperti “One Health” (OHHLEP). Finora, il benessere animale è stato largamente trascurato nei processi decisionali internazionali. Sebbene l’Agenda 2030 dell’ONU per lo sviluppo sostenibile auspichi “un mondo in cui l’umanità vive in armonia con la natura e in cui la fauna selvatica e le altre specie viventi sono protette”, gli obiettivi dell’Agenda sono perlopiù rivolti alla conservazione delle specie, della biodiversità e degli habitat, senza alcun riferimento al benessere dei singoli animali, selvatici o domestici. Oltre all’imperativo morale di tutelare le altre specie viventi, c’è un altro motivo per cui questa lacuna va colmata: la pandemia di COVID-19 ci ha bruscamente ricordato quanto la salute umana e quella delle altre specie siano collegate. La distruzione degli habitat, l’allevamento su scala industriale e il commercio della fauna selvatica contribuiscono all’insorgenza di malattie zoonotiche, che potrebbero diventare ancora più pericolose con l’innalzamento della temperatura media globale causata dal cambiamento climatico, rendendo la nascita e propagazione di questi agenti patogeni più semplice. Questa decisione senza precedenti è anche una vittoria della società civile, risultato di uno sforzo collettivo decennale fatto di campagne di sensibilizzazione e incessante lavoro di advocacy da parte di organizzazioni non governative.
UN TRAGUARDO IMPORTANTE, MA RIMANE ANCORA MOLTA STRADA DA FARE
Per loro stessa natura, i processi negoziali internazionali progrediscono lentamente, coinvolgendo quasi tutti i paesi del mondo, con punti di vista spesso contrastanti. Ciononostante, questa sessione dell’UNEA ha dimostrato che dalle sale di negoziazione emergono anche decisioni importanti e come il lavoro della società civile riesca ad avere un impatto nell’influenzare le policy e la governance internazionali. Oltre allo storico accordo sulla plastica, i testi approvati sono in generale un passo in avanti nella giusta direzione per ambiente, clima e diritti umani. In particolare, perché riconoscono il legame tra salvaguardia dell’ambiente, della salute umana e di altre specie. Inoltre, fanno riferimento agli interessi delle popolazioni indigene e delle comunità locali.
Come confermato dall’ultimo rapporto dell’IPCC, gli impatti dei cambiamenti climatici colpiscono soprattutto i gruppi marginalizzati e vulnerabili, esacerbando le disuguaglianze già esistenti. Tuttavia, si corre il medesimo rischio anche quando le politiche ambientali non tengono conto delle potenziali conseguenze negative per tutti i gruppi coinvolti. Sarà fondamentale tradurre le decisioni dell’UNEA in politiche nazionali realmente inclusive, coinvolgendo tutte le parti interessate nella loro progettazione e implementazione. Pertanto, pesa ancora l’assenza di misure di attuazione efficaci.
di Teresa Giuffrè, volontaria, e Chiara Soletti, Coordinatrice sezione Clima e Diritti Umani di Italian Climate Network