03
Ago

LA RESPONSABILITÀ STORICA DEI PAESI

Il discorso sul clima è anche un discorso sulla responsabilità. C’è un legame diretto, dimostrato dalla scienza, tra sviluppo, emissioni e riscaldamento globale. La creazione di un fondo loss & damage alla COP27 di Sharm el-Sheikh in Egitto è stato il punto di arrivo del riconoscimento di uno dei concetti base dell’azione climatica: responsabilità comuni, ma differenziate. 

«Impensabile». Anche se la battaglia era vecchia quasi quanto l’esistenza dell’UNFCCC, questo era il commento più frequente alla prospettiva della nascita di questo fondo. Un strumento finanziario sui danni e le perdite da clima per i Paesi vulnerabili sembrava un “moonshot”, una battaglia di testimonianza, qualcosa che non avremmo mai visto accadere, che i Paesi più ricchi e responsabili della crisi climatica non avrebbero mai concesso. Il meccanismo di voto per consenso sembrava una muraglia a difesa dello status quo. E invece nel giro di un paio di settimane l’impensabile è diventato pensabile, e poi da pensabile è diventato reale. 

È ancora una strada lunga: la tempolinea decisa a COP27 parla di due anni, ma devono accaderne di cose in due anni affinché i primi fondi vedano la strada dei Paesi colpiti da eventi estremi. Nel frattempo uno è quasi passato e COP28 è alle porte. I known unknown sul fondo loss and damage ne fanno ancora una scatola vuota: non sappiamo di preciso chi dovrà contribuire, chi potrà riceverli, come verranno raccolte le risorse, quali saranno le quote pubbliche e quali quelle private, se ci saranno delle tasse a integrare, che spazio avranno gli scudi assicurativi come il global shield, che ruolo avrà la Cina, contemporaneamente primo Paese per emissioni e leader politico dei Paesi vulnerabili. Oggi il fondo è ancora a metà strada, ormai molto più di un principio, ancora molto meno di uno strumento. Ne sappiamo ancora troppo poco per capire se sarà davvero qualcosa in grado di permettere ai Paesi più in sofferenza di navigare il prossimo secolo di crisi climatica. 

Oggi però possiamo soffermarci su un’altra cosa, in attesa di conoscere i dettagli decisivi: la storia che l’esistenza stessa di questa scatola vuota ci racconta. Ed è una storia di un cambiamento dei tempi verbali e degli equilibri politici. Il piano verso la creazione del fondo si è inclinato da qualche parte nelle pianure del Pakistan, mesi prima di COP27. Lì uno dei monsoni più spaventosi nella storia d’Asia ha fatto  3.000 vittime e 30 miliardi di dollari di danni. È difficile capire cosa renda un evento estremo più politicamente simbolico di altri: forse è una combinazione di scala (e qui era immensa) e capacità narrativa (al Pakistan, prima e durante COP27, non è mancata). Quell’evento è stato il punto dopo il quale nessuno avrebbe mai più parlato di cambiamenti climatici al futuro, come di un problema da prevenire, ma solo al presente, come di una catastrofe costante da affrontare. La nascita del fondo perdite e danni avviene esattamente nel contesto di questo cambio mentale, quando la pressione di una crisi su un’intera area del mondo diventa insopportabile e un blocco di Paesi è disposto a tutto, anche a far saltare un’intera COP, per avere sollievo finanziario e riconoscimento politico. 
E qui arriviamo alla seconda storia. Il fondo è, indiscutibilmente, una rarità statistica: una vittoria del Sud Globale. La storia di Paesi molto diversi tra loro per geografia, sistemi politici, storia, cultura, che fanno fronte comune per un obiettivo e riescono a spuntarla. Ci sono molti altri angoli di questa storia, a partire dall’ambiguità del ruolo cinese, ma è comunque una novità politica di cui tenere laicamente conto per il futuro. La forma del mondo è irreversibilmente cambiata dopo Sharm el-Sheikh, il fondo loss and damage è allo stesso tempo indizio e causa di questo cambiamento, i dettagli che andranno a comporlo (chi paga, chi riceve e come) andranno letti come uno dei più interessanti vaticini sulla geopolitica del secolo in corso.

Articolo a cura di Ferdinando Cotugno, giornalista de Il Domani

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