cop27
18
Nov

STANARE PECHINO

Nella notte tra giovedì e venerdì erano già circolate bozze, indiscrezioni. Tra i padiglioni spenti e nel silenzio surreale dei corridoi del centro congressi di Sharm el-Sheikh pochi delegati e osservatori assonnati commentavano quella che oggi si è rivelata essere la notizia che può cambiare la storia di questa COP.

Nella mattinata di venerdì è arrivata l’ufficialità.
Frans Timmermans, Vicepresidente della Commissione Europea e Commissario per il Green Deal, ha annunciato che l’Unione Europea ha presentato una propria proposta sul finanziamento di compensazioni per perdite e danni che va incontro a quanto chiesto nel corso dell’ultimo anno dal gruppo dei Paesi emergenti e vulnerabili, G77 più Cina

O meglio, G77. Pare infatti – ma sono voci di corridoio – che nella notte Timmermans abbia negoziato con rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo senza coinvolgere, almeno in una prima fase, i cinesi; quindi, spacchettando il fronte globale che fino ad oggi aveva marciato unito e compatto sul tema.

La proposta europea

Ma cosa ha proposto Timmermans? L’Unione Europea ha portato in sala una proposta che sostanzialmente risponde “sì” alla richiesta dei Paesi in via di sviluppo di creare un fondo già da questa COP27, con alcuni caveat che però non sono piaciuti alla Cina, che Timmermans ha costretto in una posizione scomodissima.

  • Impegno a creare da subito (in questa COP) un fondo di risposta a perdite e danni.
  • Dettagli operativi da definire nel corso del prossimo anno.
  • Contribuiranno “tutti i Paesi nella posizione di farlo”.
  • Paesi emergenti di grandi dimensioni (leggi: Cina) dovranno contribuire.
  • Finanziamenti al fondo basati su principio di responsabilità storiche e capacità come da Accordo di Parigi.
  • Le risorse nel fondo potranno essere pubbliche, private o di altro tipo.
  • Il fondo sarà rivolto ai Paesi più vulnerabili: piccoli Stati insulari e oceanici (per esempio, il Pakistan rimarrebbe fuori).
  • Il nuovo fondo opererebbe solo sotto l’Accordo di Parigi e non sotto l’UNFCCC, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
  • Impegno a esaminare la questione del debito e della riforma delle banche multilaterali di sviluppo per affrontare adeguatamente la crisi climatica.
  • Allineamento dei flussi finanziari a quanto necessario per rimanere entro +1,5°C alla fine del secolo.
  • Picco delle emissioni globali entro il 2025, come suggerito dall’IPCC per rimanere entro +1,5°C, e uscita graduale da tutti i combustibili fossili.

Timmermans stana Pechino

La proposta europea mette la Cina in una posizione molto scomoda.
Prima di tutto perché quel “nella posizione di farlo” è un evidente riferimento alla capacità contributiva della seconda economia globale. Pur includendolo nel ragionamento, la proposta supera il principio-guida della responsabilità storica intendendo la responsabilità non solo a livello emissivo (e le emissioni cinesi sono cresciute in modo esponenziale negli ultimi 10 anni), ma anche a livello della possibilità di contribuire finanizariamente alle compensazioni dei danni che quelle emissioni stanno creando e creeranno in futuro, nel loro ciclo di vita in atmosfera. Un tema tabù esattamente come lo era quello di perdite e danni – e si capisce ora che il motivo era lo stesso.

In secondo luogo, la proposta europea di trattare il fondo come un output del processo negoziale sotto l’Accordo di Parigi legherebbe i cinesi al rispetto, implicito ma legalmente consequenziale, dei limiti imposti dall’Accordo stesso. A partire dal rispetto dell’obiettivo minimo di contenere le temperature globali entro +1,5°C entro la fine del secolo. Questo potrebbe apparire scontato ma non lo è, visto che la proposta di G77 e Cina – di cui abbiamo parlato qui – vede invece il fondo sotto la Convenzione sul clima, la UNFCCC uscita da Rio 1992, che non pone obiettivi specifici nella lotta al riscaldamento globale, allentando quindi in un certo senso il livello complessivo di ambizione dell’intera azione. Contribuzioni, azioni, progetti non giudicati in linea con traiettorie compatibili con lo scenario +1,5°C non sarebbero infatti formalmente fuori strada nel secondo caso – politicamente sì, ma conta anche la forma.

Terzo punto: il “pacchetto Timmermans”. Il Vicepresidente della Commissione Europea ha spiegato con grande chiarezza che la proposta europea comprende sia il fondo che la trasformazione in obiettivi espliciti delle raccomandazioni contenute nell’ultimo report IPCC, in particolare quella che suggerisce un picco globale delle emissioni al 2025 come unica strada per rimanere in linea con l’obiettivo minimo di Parigi. Per molti Paesi restii ad azioni decise in termini di mitigazione delle emissioni, un conto è accogliere i risultati dell’IPCC come complemento e informativa delle decisioni politiche – il Sesto Rapporto IPCC viene accolto in tal senso sia dal G20 che, ad oggi, nella bozza di testo finale di COP27; altra cosa è esplicitare una data e un numero in un documento di indirizzo politico, come in questo caso, tanto più se legato ad altri obiettivi. La differenza ancora una volta non è solo sostanziale ma anche di forma politica e, in prospettiva, di credibilità.

La proposta dei co-facilitatori come punto di approdo comune?

Visto lo scompiglio creato dalla proposta europea, sembra che nelle ultime ore una maggioranza di Paesi si sia orientata a tornare sull’iniziale proposta dei co-facilitatori del gruppo di lavoro, un compromesso che tiene dentro sia lo Scudo Globale – promosso da tedeschi e, soprattutto, statunitensi -, che la possibilità di aggiungervi altri strumenti finanziari fino a comporre un “mosaico di strumenti”. Se nei giorni scorsi questo scenario poteva essere riassunto come “Scudo + altro”, oggi diventa in tutta evidenza “Fondo + Scudo + altro”. Una soluzione che potrebbe accontentare tutti, al netto degli accordi da trovare subito in merito al posizionamento delle misure nel sistema UNFCCC, della platea di finanziatori (e quanto potrà essere definita in questa fase), e altre questioni tecniche.

Stati Uniti da far rientrare in partita

Nel suo discorso qui a COP27, il Presidente statunitense Biden aveva chiaramente indicato la strada agli alleati in merito alla questione del finanziamento di perdite e danni: convergenza sullo Scudo Globale lanciato dai tedeschi al G7. Una posizione che sorprendentemente non sembrava aver trovato quasi nessuna sponda e isolato fortemente gli Stati Uniti, forse colti di sorpresa dalla compattezza del fronte G77 più Cina e dall’ammorbidimento della posizione europea, che ha infine optato per un avvicinamento tattico ai Paesi in via di sviluppo.

Sappiamo tuttavia che un accordo sul clima di questa importanza non potrà essere portato a casa, né risultare credibile, senza un diretto coinvolgimento, se non una certa ownership, del primo emettitore globale in termini storici e prima economia globale. Gli Stati Uniti devono rientrare in partita per arrivare a un risultato condiviso e significativo, e la proposta dei co-facilitatori potrebbe essere la giusta via, salvo ulteriori sorprese in questa COP inaspettatamente ricca di colpi di scena.

Quello che appare ormai certo, ed era del tutto inimmaginabile meno di sei mesi fa, è che usciremo da COP27 con il Fondo per perdite e danni. Andasse davvero così, si tratterebbe di un risultato storico. 
Rimangono poche ore ai negoziatori per decidere cosa lasciare per strada in virtù del risultato principale, a partire dalle diciture in merito all’uscita sulle fonti fossili e in particolare dal carbone, dalla revisione degli NDC (i contributi determinati a livello nazionale, ovvero gli obiettivi in termini di riduzione e azzeramento delle emissioni) e molto altro. Per non fare la fine del paragrafo sulla tutela dei diritti umani e del diritto a vivere in un ambiente salubre, inserito e poi cancellato del tutto già nel primo giro di revisioni.

Articolo a cura di Jacopo Bencini, Policy Advisor e UNFCCC Contact Point

Foto di copertina: Ahram online

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