VERSO COP27: IL PUNTO
La diplomazia del clima si è rimessa in moto e tra una settimana rivedremo delegati, tecnici, Ministri e rappresentanti della società civile volare a Sharm El-Sheikh, in Egitto, per aprire la COP27 a poco meno di un anno dal finale deludente per i più della britannica COP26 di Glasgow. Quella che partirà sarà una COP particolare. Inizialmente pensata come un momento di aggiornamento e confronto sugli obiettivi climatici dei Governi rispetto a COP26 con un’attenzione specifica al tema dell’adattamento, di fatto COP27 sarà soprattutto la prima conferenza sul clima dallo scoppio del conflitto russo-ucraino, un momento di test per molti Paesi occidentali stretti tra ambizione climatica e caro-bollette.
Dove ci eravamo lasciati?
Il documento finale della COP di Glasgow, il cosiddetto “Glasgow Climate Pact”, è passato agli onori della cronaca nel 2021 per la vicenda del cambio last-minute nel testo finale, con la sostituzione di “phase-out” (uscita) dal carbone entro il 2030 con “phase-down” (uscita graduale) su spinta dell’India e di molti Paesi in via di sviluppo, a fronte dell’ennesimo tergiversare occidentale in merito ai finanziamenti necessari in finanza climatica. Lo stesso documento però conteneva anche altre indicazioni e accordi politici, primo tra tutti l’obbligo per tutti i Paesi del mondo di aggiornare i propri impegni nazionali sul clima (NDC) entro, appunto, la COP27 egiziana.
Ad agosto 2022 solo 17 Stati avevano depositato impegni aggiornati ed era già chiaro che Stati Uniti, Cina ed Unione Europea non avrebbero aggiornato i propri al rialzo, adducendo motivazioni diverse – ne abbiamo parlato qui. Ad oggi (fine ottobre) a quei 17 si sono aggiunti solo 9 Paesi (tra i quali i big player India, Regno Unito e Indonesia), per un totale di 26 impegni nuovi o aggiornati su 196, a coprire il 18% delle emissioni globali (l’India da sola vale per il 7,02%). Molto lontani dal salto di qualità che ci si aspettava. Rimane comunque probabile che molti Paesi depositeranno NDC aggiornati a ridosso dell’avvio dei lavori o durante le due settimane di COP.
Adattamento e finanza per il clima
Chi come noi nei mesi scorsi ha seguito i lavori preparatori a questa COP27 potrebbe aver provato un certo senso di confusione in merito alle priorità del vertice. Se, stando al Glasgow Climate Pact e a quanto ripetuto nei corridoi dei Ministeri europei, questa avrebbe dovuto essere una COP sulla mitigazione (quindi focalizzata sull’aggiornamento delle promesse dei P aesi ed eventualmente al finanziamento delle politiche dei Paesi più poveri), negli ultimi mesi ed in particolare nelle ultime settimane il focus della presidenza egiziana sembra essersi spostato – complici anche pressioni degli altri Paesi africani, la scarsa risposta internazionale sugli NDC ed il contesto internazionale – decisamente a favore delle politiche di adattamento, prima nei comunicati stampa, quindi nell’agenda dei lavori.
Se una particolare attenzione al tema dell’adattamento era sicuramente attesa, tenendosi la COP di nuovo in un Paese africano a sei anni da Marrakech 2016, i recenti disastri naturali in alcuni Paesi del continente e, più recentemente, in Pakistan, hanno ridato vigore politico al tema “scottante” (e non ci riferiamo alla temperatura) dei soldi necessari a rispondere al disastro climatico. Soldi (e altri tipi di supporto) per politiche di adattamento che servono e serviranno sempre più, ai Paesi più fragili ed in generale al Sud del mondo per continuare a crescere e svilupparsi senza depauperare del tutto i propri bilanci e PIL in politiche di messa in sicurezza, prevenzione e ricostruzione di fronte a fenomeni estremi sempre più frequenti. Questi soldi, secondo il criterio di responsabilità storica vigente nella Convenzione Quadro ONU sul clima, devono provenire dall’Occidente ed in generale dai Paesi storicamente più industrializzati.
L’ultimo report del Green Climate Fund, uscito poche settimane fa, riparte dal traguardo dei $10 miliardi di finanziamento totale del fondo raggiunto proprio a Glasgow un anno fa. Ad oggi, infatti, il fondo sostiene 200 progetti nel mondo (49% in adattamento) finanziati da $10,8 miliardi di fondi versati dai Paesi, oltre a $29,4 miliardi mobilitati a cofinanziamento. Cifre che sembrano alte, ma che, denuncia il Third World Network, sono ben lontane dai $100 miliardi all’anno in finanza climatica promessi ogni anno ormai dal 2009 (mobilitazione attuale intorno agli $80 miliardi all’anno) e non coprono neanche lontanamente i bisogni dei più vulnerabili, come ribadito dai delegati africani alla pre-COP27 di Kinshasa solo poche settimane fa. Un appello lanciato in generale verso la COP ed in vista del prossimo periodo 2024-2027 di riempimento del Green Climate Fund, per il quale si punta a superare – e di molto – i $10 miliardi del primo periodo 2020-2023, cui peraltro gli Stati Uniti d’America non hanno mai contribuito.
Ampliando il quadro, suona spietato anche l’ultimo dato dell’agenzia internazionale per le rinnovabili, IRENA, per il quale negli ultimi 20 l’Africa avrebbe attratto solo il 2% di tutti gli investimenti globali in energie rinnovabili, un segnale evidente della mancanza di una governance globale strutturata di trasferimenti di risorse e capacità anche rispetto alle esigenze segnalate dai Paesi più poveri nei loro impegni climatici nazionali.
La “bomba” politica: Perdite e Danni
A Glasgow, tra i principali motivi di delusione per molti Paesi in via di sviluppo figurava l’esclusione dal Glasgow Climate Pact della possibilità di creare un nuovo strumento finanziario a sostegno dei costi cui annualmente incorrono i Paesi più fragili per Perdite e Danni da eventi estremi. Il tema, che sembrava destinato a covare sottotraccia almeno per i prossimi due-tre anni, è invece tornato con forza nel dibattito internazionale durante i negoziati intermedi di giugno 2022 a Bonn, in Germania, dove un cospicuo gruppo di negoziatori ha chiesto di poter inserire nell’agenda dei lavori di Sharm El-Sheikh proprio una discussione in merito a possibili strumenti finanziari e non più solo “dialoghi” pluriennali, considerati poco fruttuosi.
(Nota: come Italian Climate Network e come membri del consorzio pan-europeo Spark! abbiamo fatto nostra la posizione di quei Paesi ed in questo senso abbiamo lanciato una campagna di raccolta firme guidata dall’attivista kenyota Elizabeth Wathuti indirizzata ai Governi del mondo – puoi firmare cliccando qui).
Ebbene, la presidenza egiziana della COP27 ha, infine, accettato e fatto propria la richiesta di quei Paesi ed ha inserito all’ordine del giorno dei lavori, con ordine di discussione “8-F” sotto la sezione “finanza”, una discussione in merito a “questioni riguardanti accordi di finanziamento per rispondere a perdite e danni”. Una svolta politica inimmaginabile prima di giugno e comunque difficilmente pronosticabile anche solo poche settimane fa. Starà ora alla presidenza egiziana ed ai negoziatori dei P aesi condurre la discussione in modo da raggiungere un qualche obiettivo pratico dopo il fallimento di Glasgow, sebbene in un contesto internazionale indebolito dal conflitto russo-ucraino e con la permanente opposizione a qualsiasi nuovo strumento finanziario sul tema da parte degli Stati Uniti – che per responsabilità storiche dovrebbero diventarne i primi finanziatori.
“E la Russia?”
La Federazione Russa parteciperà normalmente ai negoziati sul clima di Sharm El-Sheikh, e – questa l’opinione di Mosca – non avrebbe motivi per non farlo, come del resto aveva già partecipato ai negoziati intermedi di giugno, pur in un contesto di grande freddezza diplomatica. D’altra parte, la COP africana serve al governo russo sia come momento di normalizzazione della propria posizione internazionale che di costruzione di alleanze nel continente. Fuori dalla narrazione occidentale, infatti, la Federazione Russa appare molto meno isolata di quanto potrebbe sembrare: tra i 35 paesi che all’Assemblea Generale si sono recentemente astenuti rispetto alla condanna dell’aggressione russa all’Ucraina figurano la Repubblica Centrafricana, la Repubblica del Congo, l’Uganda, ma anche l’Algeria, il Sud Africa, il Mozambico, la Tanzania. Abbiamo parlato in un articolo di questa estate di come alcuni Paesi africani potrebbero addirittura trarre profitto dal conflitto in Europa in termini di export di combustibili fossili. Ecco che quindi, non a caso a ridosso di COP27, agenzie riportano visite di Stato russe in alcuni Paesi africani e proprio lo scorso 25 ottobre il Presidente della Guinea-Bissau e capo dell’ECOWAS (associazione sovranazionale degli Stati africani occidentali), Umaro Sissoco Embalo, si è recato a Mosca in visita da Vladimir Putin. Negli stessi giorni il nuovo Presidente del Kenya, William Ruto, ha dichiarato che pur di abbassare i costi di famiglie e imprese vedrebbe favorevolmente l’acquisto di carburanti proprio dalla Federazione Russa. L’ombra lunga del conflitto in Ucraina rimane comunque centrale nei negoziati, in particolare per gli effetti negativi che sta avendo nella ristrutturazione degli energy mix nelle principali economie occidentali.
Articolo a cura di Jacopo Bencini, Policy Advisor e UNFCCC Contact Point Italian Climate Network