UNA PLENARIA CHE DIVIDE: LE SETTIMANE, GLI STATI, GLI INTENTI
- La plenaria che divide le due settimane di COP28 è forse rivelatrice di spaccature interne allo stesso Segretariato, i cui sviluppi potremo vedere solo alla fine delle negoziazioni.
- Gli stati continuano ad avere priorità differenti rispetto al phase out dei combustibili fossili, ovvero il loro definitivo abbandono.
- Le ONG ambientali hanno espresso malumori nei confronti di una governance di COP28 ancora molto discussa.
“This COP is actually different”. Ha esordito così il presidente Al Jaber alla plenaria che, venerdì 8 dicembre ha segnato la riapertura dei lavori di COP28 dopo una breve pausa di un giorno.
Nel suo discorso, che ha dato il via alla plenaria, Al Jaber ha esposto l’agenda dei lavori previsti per la sessione e ha chiuso con l’auspicio: “facciamo sì che questa COP venga ricordata come la COP della collaborazione, che ha cambiato le regole dei giochi, che ha trasformato il modo in cui vengono condotte le COP. Per favore, facciamo in modo di portare a termine il lavoro”.
Siamo a metà della COP28 e una cosa è certa: il Presidente vuole che questa venga ricordata come una conferenza senza precedenti, come una COP che ha rivoluzionato il modo di fare questo tipo di vertici, una COP “come nessun’altra”. Ma anche una COP che arriva alle decisioni attese, senza rimandare, un evidente riferimento alla possibilità (sempre più concreta) di un prolungarsi dei lavori oltre la data prevista di chiusura.
A livello pratico, si è discusso sull’organizzazione successiva dei lavori per la seconda settimana dei tre bodies che formalmente compongono la COP: CMP (i Paesi che hanno ratificato Kyoto), CMA (i Paesi che hanno ratificato Parigi) e COP, appunto.
Durante la plenaria sono emersi in particolare tre aspetti su cui è interessante soffermarsi.
Il ruolo di Simon Stiell, Segretario esecutivo UNFCCC.
Stiell sembra infatti prendere sempre più le distanze dalle posizioni della presidenza COP28, e sottolinea l’importanza di un phase-out dalle fonti fossili (ossia il loro abbandono completo) ribadendo l’evidenza scientifica che ne supporta la necessità e l’efficacia nel contrasto alla crisi climatica.
Nel suo intervento alla plenaria, inoltre, Simon Stiell ha avvertito che “se vogliamo salvare vite umane ora, e mantenere l’obiettivo 1,5°C a portata di mano, i risultati più ambiziosi della COP devono rimanere in primo piano e al centro di questi negoziati”. Stiell ha anche precisato che durante questa seconda settimana di negoziati non avrebbe avuto piacere a vedere distrazioni o tattiche politiche che tengano in ostaggio l’ambizione climatica.
La spaccatura fra gli Stati.
Durante la sessione di discussioni è emersa una forte spaccatura tra i Paesi che spingono per il phase–out senza compromessi e sono evidentemente animati da un sentimento d’urgenza e concitazione, quelli che invece hanno una posizione più neutrale o comunque meno ambiziosa, e infine quelli che pretendono il semplice rispetto degli accordi internazionali già concordati a Parigi.
Non è difficile immaginare che i Paesi maggiormente preoccupati, che usano parole forti e politicamente “responsabilizzanti” e che animano la sala negoziale con il loro malcontento, siano quelli maggiormente vulnerabili, che già stanno subendo gli effetti più drammatici del cambiamento climatico eppure, spesso, vengono esclusi da incontri e negoziati rilevanti.
L’intervento di Cuba ha aperto la sessione di discussione. Dopo un iniziale imbarazzo e trambusto dovuto alla corsa dei delegati alle cuffie per tradurre l’intervento dallo spagnolo, il delegato cubano ha chiesto maggiore chiarezza sulle consultazioni ministeriali e dei facilitatori, e l’accesso a queste ultime. Inoltre, il delegato ha chiesto quale fosse l’intenzione riguardo alla comunicazione dei risultati di queste consultazioni alle parti interessate.
Hanno poi preso la parola Samoa (che ha richiesto un phase–out totale dei combustibili fossili, peraltro dopo aver aderito proprio nei giorni scorsi alla proposta di Trattato contro la proliferazione dei combustibili fossili), Australia (che ha spinto per un risultato forte e sostanziale sulla prima decisione annuale nell’ambito del Mitigation Work Programme), Unione Europea (che si è fatta portavoce del raggiungimento degli obiettivi di Parigi, citando una transizione equa e giusta e la necessità di cambiare i sistemi di riferimento finanziario globale), Svizzera e Bolivia.
L’intervento del delegato boliviano è stato il primo a enfatizzare l’importanza di restare fedeli agli accordi già presi a Parigi e di non focalizzarsi su modifiche continue di processi e meccanismi. Il delegato ha anche citato il bisogno di un’iniziativa da parte dei Paesi sviluppati per fornire mezzi di sostegno per l’implementazione ai paesi in via di sviluppo. Chiudendo il suo discorso, ha aggiunto che la Bolivia non ha intenzione di compromettere il suo diritto allo sviluppo.
Questo intervento è stato il primo a ricevere un applauso dall’inizio della plenaria, ed è sembrato sbloccare la reticenza alla manifestazione di consenso da parte dei delegati che c’era stata fino a quel momento.
In seguito, hanno preso la parola i rappresentanti di Guatemala, Zambia, Isole Marshall (che hanno citato un phase–out graduale del consumo e la produzione di tutti i combustibili fossili), Senegal, Cile, Arabia Saudita, Filippine, Colombia.
Tra questi è spiccata sicuramente la Colombia, il cui intervento ha ricevuto un applauso di una quarantina di secondi e sarebbe probabilmente proseguito più a lungo se la presidenza non avesse richiamato l’attenzione all’’aderenza ai tempi prestabiliti dell’agenda.
La delegata colombiana è stata l’unica a non leggere un discorso pre-scritto, e l’unica che a rivolgersi direttamente alla platea di delegati con contatto visivo e fermezza nelle parole. Risoluta, ha sottolineato come l’evidenzia scientifica mostri chiaramente che quello di 1.5 gradi non è un obiettivo, ma un limite ambientale per evitare un disastro. Infatti, una volta superata quella soglia saremo costretti a confrontarci con le perdite e i danni provocati dagli effetti più disastrosi della crisi climatica. La Colombia, ha detto, vuole rispettosamente invitare le parti a impegnarsi nell’affrontare l’uscita dai combustibili fossili per l’obiettivo 2030, ma anche a concordare il diritto universale a sistemi di allarme rapido per tutta la popolazione.
Gli ultimi a intervenire sono stati l’India (rimasta vaga sulla sua posizione), Israele (che ha parlato di “phase out of the inefficient fossil fuel”) e il Nepal.
Il dissenso rispetto alla presidenza di Al Jaber.
Durante questa plenaria si è data voce ad un tema, quello della “presidency driven process” (processi.. “troppo” guidati dalla Presidenza).
Una tema ‘silente’, e una problematica, che durante la prima settimana negoziati si era già fatto strada negli ambienti informali di COP28 e poi in modo più manifesto dopo la pubblicazione del filmato di novembre in cui il Presidente metteva in discussione l’origine antropica del riscaldamento globale. Venerdì in plenaria questo scetticismo è stato ‘sbattuto in faccia’ al Presidente Sultan Al Jaber dalla rappresentante di una organizzazione non governativa ambientalista, il cui intervento ha incontrato il supporto di quei pochi che hanno provato a far partire un applauso che però si è dissolto in tempi molto brevi e con un lieve imbarazzo in sala.
Dunque, come da volontà del Presidente della COP Al Jaber, sarà sicuramente una COP che verrà ricordata, ma probabilmente non per i motivi da lui sperati e citati all’inizio di questo articolo.
Articolo a cura di Cecilia Consalvo, delegata di Italian Climate Network a COP28.
Immagine di copertina: foto di Cecilia Consalvo