DALL’UNIVERSITÀ ALLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA: DAGLI STUDENTI UNA PROPOSTA PER DIRITTI UMANI E CLIMA
Vanuatu è uno Stato insulare del Pacifico popolato da circa 300.000 abitanti e si trova ora in prima linea ad affrontare la crisi climatica. È riconosciuto come uno dei Paesi più vulnerabili al mondo agli impatti climatici ed è continuamente colpito da cicloni, precipitazioni estreme e tsunami. Per la comunità locale la lotta contro il cambiamento climatico non è una questione rimandabile: da essa dipende la loro vita.
Nel 2019 un gruppo di 27 studenti della facoltà di giurisprudenza dell’Università del Sud Pacifico a Vanuatu aveva presentato una proposta al governo locale e ai leader di tutti i Paesi del Forum delle Isole del Pacifico, la principale organizzazione intergovernativa della regione. Gli studenti si rivolgevano ai governi affinché presentassero all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite un progetto di risoluzione per richiedere alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) di pronunciarsi sulla crisi climatica. Quest’ultima avrebbe dovuto emettere un parere sugli obblighi degli Stati derivanti dal diritto internazionale, in particolare quelli riguardanti la protezione dei diritti delle generazioni presenti e future dagli effetti del cambiamento climatico.
Dal 2019 ad oggi, l’ambizioso appello dei giovani è stato accolto da oltre 80 Stati. Alla COP27 è stata annunciata la pubblicazione della bozza di risoluzione che avverrà all’inizio della prossima settimana. Si aprono ora alla COP i negoziati informali, volti a raccogliere il massimo numero di consensi tra delegazioni prima della votazione in seno all’Assemblea Generale prevista tra qualche settimana. In questi giorni, infatti, il Presidente di Vanuatu, Nikenike Vurobaravu, ha lanciato un appello a tutti i leader mondiali affinché votino a favore della proposta. Ci sarà bisogno della maggioranza dei Paesi dell’Assemblea Generale per poter adire alla Corte Internazionale di Giustizia. Se tutto dovesse andar bene e la proposta arrivasse alla Corte, ci troveremmo davanti a una grande occasione di cambiamento.
La questione sulla quale la Corte potrebbe pronunciarsi è tutt’altro che semplice – cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
Come sappiamo, l’Accordo di Parigi è il primo accordo universale giuridicamente vincolante sul clima. Gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni, i cosiddetti Nationally Determined Contributions (NDC- contributi determinati a livello nazionale) non sono però vincolanti, secondo il principio bottom-up alla base dell’Accordo stesso. In altre parole, la natura dell’Accordo di Parigi si basa sull’impegno volontario degli Stati e chi segue le COP sa che questo non è mai sufficiente. L’impatto del cambiamento climatico sulla popolazione di alcuni Paesi è devastante e diventa man mano più violento. Viene da chiedersi, dunque, quali siano gli obblighi degli Stati rispetto agli effetti negativi del cambiamento climatico che si ripercuotono sui Paesi maggiormente vulnerabili, in primis i piccoli Stati insulari in via di sviluppo. Esistono obblighi internazionali (in capo agli Stati) che tutelano i diritti umani dalla crisi climatica? Generalmente, così come per l’Accordo di Parigi, non ci sono trattati internazionali in materia climatica che impongono obblighi di questo tipo.
La proposta degli studenti si basa però su un altro interrogativo: gli effetti che il mancato adempimento dell’Accordo di Parigi sta provocando sulle comunità dei Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico costituiscono una violazione di qualche accordo internazionale vincolante? Se la risposta fosse positiva, si arriverebbe alla conseguente assunzione che gli Stati che non rispettano le disposizioni dell’Accordo sono responsabili di violazioni del diritto internazionale.
In effetti sono molti i trattati – specialmente quelli riguardanti i diritti umani – che pur non concentrandosi sulla questione climatica in sé, includono dei diritti e obblighi che ne sono indirettamente collegati, come nel caso della Dichiarazione dei diritti del fanciullo. Ad ogni modo, la Corte Internazionale di Giustizia, il cui compito, tra gli altri, è quello di dare opinioni su questioni rilevanti di diritto internazionale (c.d. parere consultivo), si dovrebbe per la prima volta esprimere sulla crisi climatica.
C’è da aggiungere che neanche la pronuncia della Corte, se mai dovesse arrivare, sarebbe vincolante nello stesso modo in cui accade in un sistema giuridico nazionale, ma chiarirebbe una volta per tutte le responsabilità dello Stato di proteggere i diritti umani in relazione al cambiamento climatico. Si potrebbe, in questo modo, rafforzare l’azione riferita agli obiettivi dell’Accordo di Parigi, incoraggiando gli Stati a raggiungere il loro più alto livello di ambizione possibile in materia climatica. Il parere della Corte sarebbe un potente precedente a cui legislatori e giudici potrebbero fare riferimento nei casi di contenzioso climatico che soffrono ancora del confuso regime giuridico del diritto ambientale.
La proposta di un gruppo di studenti ha dunque tutto il potenziale per essere rivoluzionaria, e per portare i diritti umani al centro del dibattito sulla lotta al cambiamento climatico. Rimane solo da capire se mai si realizzerà.
Articolo a cura di Camilla Pollera, volontaria sezione Clima e Diritti
Foto di copertina: il Primo Ministro di Vanuatu Bob Loughman all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. Fotografia: UN Photo/Manuel Elías