27
Gen

PIANI SUL CLIMA IN COMPETIZIONE?

Dal 16 al 20 gennaio i leader del mondo dell’industria e della politica si sono incontrati a Davos, in Svizzera, per l’annuale vertice invernale del World Economic Forum. Il titolo dell’edizione di quest’anno era “Cooperare in un mondo frammentato”, con un ovvio riferimento al conflitto russo-ucraino ed alle sue conseguenze geopolitiche, ma non solo.

Al centro del dibattito oltre alla crisi energetica, alla crescente inflazione ed alla potenziale crisi nei consumi delle famiglie nelle principali economie europee (da notare la visibilità data al nesso clima-cibo-energia), il ritorno ad un approccio poco integrato e apparentemente troppo competitivo delle politiche sul clima, che – a detta di molti attori europei – vedono gli Stati Uniti tornare su posizioni eccessivamente protezioniste con l’Inflaction Reduction Act ed il relativo piano di investimenti verdi. Il piano, lanciato nell’agosto 2022, prevede investimenti in energie pulite per 391 miliardi di dollari e rappresenta il più grande piano sul clima mai adottato nella storia degli Stati Uniti – e nella sua versione originaria (come Build Better Act) il piano avrebbe dovuto prevedere investimenti ancora più ingenti. Se, da un lato, il piano di Biden rappresenta un’ottima notizia per il clima e per gli USA rientrati politicamente nell’Accordo di Parigi all’inizio del 2021, a detta di molti investitori presenti a Davos esso pone rischi competitivi per molte aziende della filiera europea viste alcune misure e incentivi, per esempio in forma di crediti d’imposta a salvaguardia delle aziende del settore automotive elettrico americano a discapito di quelle europee.

A stemperare gli animi è intervenuto il Ministro francese dell’economia e della sovranità industriale, Bruno Le Maire, che ha sottolineato come le attuali tensioni commerciali tra Stati Uniti ed Europa sulle politiche verdi non possano che risultare in maggiore concorrenza (qui intesa in senso positivo) in un ambito di collaborazione e partenariato politico-economico. In questo senso, secondo Le Maire, risulta quindi urgente per l’Europa investire in idrogeno, semiconduttori (prodotti quasi esclusivamente a Taiwan e da anni al centro delle tensioni politiche USA-Cina), pannelli fotovoltaici, produzione da rinnovabili e tecnologie per il nucleare, nell’ottica di una risposta coordinata alla sfida americana. La Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen è intervenuta con toni simili sulla questione, specificando che in un contesto di forti investimenti, pur in un quadro di incertezza, l’Unione Europea deve innanzitutto investire in una propria filiera di produzione delle batterie, per le quali ad oggi dipende quasi esclusivamente dalla produzione cinese.

Tra i numerosi panel ha trovato spazio anche la polemica sulla presidenza di COP28affidata dagli Emirati Arabi Uniti a Sultan al Jaber, Ministro dell’Industria e CEO della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), prima compagnia petrolifera dell’emirato. Si tratta della prima volta nella storia che la presidenza di una COP sul clima viene affidata ad un CEO del settore petrolifero e questo ha causato un’ondata trasversale di scontento nelle ultime settimane, dalla politica al mondo dell’attivismo. L’Inviato Speciale per il clima degli Stati Uniti, John Kerry, presente al vertice di Davos, ha voluto difendere la scelta degli alleati nel Golfo dicendo che “non si dovrebbe giudicare un libro dalla copertina”, che al Jaber è un politico e imprenditore di grande esperienza che per primo ha avviato ingenti piani di diversificazione e decarbonizzazione dell’economia emiratina negli ultimi anni e che potrebbe, quindi, rappresentare una sorpresa nel contesto comunque apparentemente poco ambizioso di una COP diretta da un petro-stato. Visione rassicurante e ottimistica non condivisa però dal mondo dell’attivismo.

Degni di nota, a margine delle discussioni tra CEO, alcuni momenti che hanno visto protagonisti volti noti dell’attivismo per il clima, della scienza e della politica, a partire dalle presenze di Greta Thunberg (che ha protestato contro l’inazione climatica assieme ad altre attiviste dal mondo), Fatih Birol, Direttore Esecutivo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, Marina Silva, Ministra dell’Ambiente del nuovo governo brasiliano guidato da Lula, Sherry Rehman, Ministra per il Clima del Pakistan (protagonista nella vicenda che ha portato all’approvazione del Fondo per Perdite e Danni a COP27). Al centro dei dibattiti la necessità per il mondo della finanza e del capitale internazionale di contribuire massicciamente alla transizione ecologica, evitando pratiche di eccessivo greenwashing e, come sottolineato dall’Inviato Speciale Kerry in un accorato appello, fornendo alla finanza per il clima ciò che più è mancato negli ultimi anni: “soldi, soldi, soldi, soldi”. Non sembrano aver preso piede, perlomeno a Davos, discussioni strutturate sulla ristrutturazione delle banche multilaterali di sviluppo come avviate poche settimane fa in Egitto alla COP27. Probabilmente il mix investitori-politici non era il contesto giusto e probabilmente il tema non viene ancora visto come una priorità fuori dalla bolla dei negoziati.

La questione principale che questa edizione di Davos lascia sul piatto per i prossimi anni rimane comunque quella della potenziale guerra commerciale “verde” tra Stati Uniti ed Unione Europea. Avvisaglie scomode a livello di relazioni euro atlantiche – non a caso il Ministro francese ha voluto subito intervenire da paciere – difficili da leggere per settori automotive già in forte ristrutturazione e pressati dalla concorrenza cinese (anche in termini di vendita di mezzi, non solo sulle batterie), arrivate nel momento geopolitico sbagliato. Se politicamente non dovrebbero esistere rischi concreti di un raffreddamento dei rapporti tra l’amministrazione democratica di Washington e le cancellerie europee su basi meramente commerciali, è ora compito dei vari governi adoperarsi nel trovare correttivi attenti alle esigenze del mondo del lavoro e della produzione – sempre nell’ottica della transizione, s’intenda – per non complicare ulteriormente un quadro internazionale già fortemente sotto stress.

Articolo a cura di Jacopo Bencini, Policy Advisor e UNFCCC Contact Point

Foto di copertina: Financial Times

You are donating to : Italian Climate Network

How much would you like to donate?
€10 €20 €30
Would you like to make regular donations? I would like to make donation(s)
How many times would you like this to recur? (including this payment) *
Name *
Last Name *
Email *
Phone
Address
Additional Note
Loading...