14
Giu

TRA SOLDI, SUSSIDI E NUOVE, DISPERATE IDEE

Ai negoziati intermedi di Bonn non si parla d’altro che di soldi. Il tema della finanza per il clima, ossia della messa a disposizione da parte dei Paesi più sviluppati di risorse per supportare la transizione verde globale, è ormai sempre più “il” tema dei negoziati, cui tutto ruota attorno. Eppure, lo riportiamo con una certa amarezza, più se ne parla, meno soldi sembrano comparire.

Il tema della finanza per il clima – e quindi del giusto contributo dei Paesi più ricchi allo sforzo globale – rimane, di fatto, l’ultimo pezzo dell’Accordo di Parigi da far “ingranare” dopo che su mitigazione e adattamento si è lavorato per anni, si è approvato il Libro delle Regole, si sono perfezionati meccanismi e obiettivi, si è entrati nel primo inventario quinquennale delle politiche (il global stocktake). Con COP27 si è addirittura approvata la creazione di un fondo a compensazione di perdite e danni per i Paesi più fragili, dopo una battaglia politica durata quasi trent’anni. Insomma, l’impalcatura per far funzionare l’Accordo di Parigi ormai sembra completa, mancano “solo” i soldi.

Alla domanda se questi finanziamenti debbano essere mobilitati nei bilanci degli Stati, tramite la finanza privata, oppure in entrambi i modi, si risponde secondo l’impostazione politica di appartenenza. Coerentemente con il proprio mandato di rappresentatività globale, i testi delle Nazioni Unite approvati in questi ultimi anni tengono conto di tutte le possibili fonti di finanziamento, purché i soldi comincino a circolare. Nei giorni scorsi i Paesi in via di sviluppo, nelle ore del braccio di ferro politico sull’adozione dell’agenda dei lavori, hanno addirittura tirato in ballo l’Articolo 4 dell’Accordo di Parigi, fino a questa settimana perfetto sconosciuto dei negoziati, pur di spingere sul tema dei trasferimenti finanziari.

Ma perché, se tutti negli anni si sono detti favorevoli e non hanno posto obiezioni all’adozione di decisioni che prevedono questo lento scorrere di soldi dal Nord al Sud globale, almeno su carta, non si sono poi mantenute le promesse? Questa la domanda rilanciata con forza dai Paesi G77, nel mondo della diplomazia del clima come in tutti gli altri consessi ONU, che si parli di biodiversità, clima, cibo. 

La risposta può apparire fin troppo semplicistica: nessun governo occidentale ha veramente voglia di distogliere denaro pubblico, tasse pagate dai contribuenti, verso Paesi lontani dove magari – qui un primo grado di pregiudizio – quello stesso denaro finirà in chissà quali giri di corruzione per non arrivare poi mai alle comunità. Eppure quegli stessi governi, come del resto il nostro, continuano ad usare quegli stessi soldi dei contribuenti per finanziare il settore fossile tramite i sussidi ambientalmente dannosi, quindi di fatto raddoppiando in peggio il loro contributo negativo al problema.

Nella giornata del 14 giugno, mentre finalmente si trovava un accordo per l’adozione dell’agenda dei lavori dopo dieci giorni di negoziato, questi temi sono emersi con chiarezza durante un side event promosso da Christian Aid, CIDSE e altre organizzazioni cattoliche, cui partecipavano alcuni esperti, attivisti ed il coordinatore dei Paesi LDC nel Comitato di Transizione per il fondo perdite e danni. Si è voluto, innanzitutto, smontare il pregiudizio sulla corruzione nei Paesi di destinazione, orientando invece azioni e ragionamenti al “come e in che tempi” risorse stanziate tramite fondi multilaterali, dovranno arrivare sui territori. Tutto ciò ben oltre i meccanismi esistenti quali il Green Climate Fund, giudicati positivamente, ma anche incapaci di rispondere in velocità alle esigenze concrete dei Paesi più colpiti. La corruzione, inoltre, prende forme diverse secondo la cultura che la indica, ha ricordato Harjeet Singh di CAN International: “come se del resto la corruzione non esistesse nei migliori Paesi sviluppati; essa prende semplicemente altre forme, fatte di pareri, burocrazia”. Il tema della paura della corruzione e, quindi della perdita di valore dei trasferimenti finanziari lungo la strada dall’Occidente alle popolazioni più fragili, è anche alla base della ritrosia occidentale verso erogazioni a fondo perduto nella finanza climatica, cosa invece chiesta a gran voce dai Paesi G77. Nelle capitali europee si preferisce pensare a schemi assicurativi e progetti rendicontabili, magari con erogazioni per tranches, per tenere meglio sotto controllo l’effettivo buon impiego delle risorse ricevute. Ma come fare a far decollare il sistema se i Paesi potenziali riceventi non hanno neanche le strutture ministeriali e contabili per partecipare ai bandi? Qui entra il gioco il tema, collegato, del supporto nella crescita amministrativa, il capacity building, ma neanche su questo girano ancora abbastanza soldi da poter dire di essere in un processo avviato.

Il tema dei sussidi ambientalmente dannosi rimane centrale nell’attivismo per il clima e, vista la sua assurdità, non potrebbe essere altrimenti. Nello stesso side event del 14 giugno gli esperti si sono confrontati sulla proposta, per alcuni molto sensata, di cominciare a far “macinare” i meccanismi di finanza climatica tramite la previsione di uno stanziamento minimo in climate finance nei bilanci nazionali equivalente al 10% dei sussidi ambientalmente dannosi erogati l’anno precedente. Per l’Italia, questo comporterebbe un investimento di soldi pubblici in politiche climatiche solidali di almeno 2,25 miliardi di euro all’anno stando alla comunicazione appena trasmessa dal Ministro Pichetto Fratin alla Camera dei Deputati, circa 3 miliardi di euro all’anno secondo i dati di Legambiente. Anche nell’opzione minima, si tratterebbe di fresh money statale (spesa corrente reale, vera) quasi tre volte superiore a quanto promesso nel 2022 con il Fondo Italiano per il Clima, che avrebbe mobilitato risorse in mitigazione e adattamento in Paesi prioritari per la Farnesina e del quale si è da qualche tempo perso traccia nei meandri delle riunioni tra Comitati ministeriali.

Rispetto a questa proposta, chi scrive ne vede il limite nel fatto che i sussidi ambientalmente dannosi dovrebbero gradualmente – ed il più velocemente possibile – ridursi fino all’azzeramento. Ancorare una percentuale di previsione di spesa ad una cifra che si desidera decrescente potrebbe essere un buon punto di caduta negoziale, ma sicuramente non una buona idea in prospettiva. Forse più oculato ancorare la previsione percentuale al picco di spesa in sussidi dannosi oppure, se negozialmente troppo complesso, ad un determinato anno-base, così da non cadere nella propria trappola.
Parliamo di cifre irrisorie rispetto alle reali necessità di chi vive fuori dall’Occidente. I famosi e ormai quasi mitologici 100 miliardi di dollari all’anno in finanza climatica, cui saltuariamente ancora il nostro Governo fa riferimento indicando il Fondo Italiano per il Clima come lo strumento che ha messo l’Italia in linea con gli obiettivi ONU, non solo non sono mai stati davvero mobilitati, ma spariscono al confronto delle nuove stime che indicano in almeno 3.000 miliardi di dollari all’anno il fabbisogno finanziario di quanto contenuto nell’Accordo di Parigi. Anche in questo senso è stato avviato il lavoro verso la determinazione di un nuovo obiettivo quantitativo collettivo (definito dall’acronimo inglese NCQG, New Collective Quantified Goal), lavoro proseguito a minima velocità anche a Bonn e che ritroverà vigore – speriamo – a COP28 a fine anno. Magari, assieme al raggiungimento dei 100 miliardi di dollari a quattordici anni dal lancio dell’obiettivo e con tre anni di ritardo rispetto alla scadenza del 2020.

Articolo a cura di Jacopo Bencini, Policy Advisor e UNFCCC Contact Point

Foto di copertina:  YouTube UNFCCC

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