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COP28 E ATTIVISMO: SFIDE E VIOLAZIONI DEL DIRITTO AL DISSENSO E ALL’INCLUSIONE NEI PROCESSI DECISIONALI

  • La partecipazione e l’attivismo sono strumenti fondamentali per la giustizia climatica.
  • Chi difende l’ambiente continua a essere oggetto di discriminazioni e violenze. 
  • Le COP necessitano di un miglioramento per quanto riguarda inclusività e partecipazione.

La COP28 è la conferenza sul clima con il più alto numero di partecipanti, quasi 100 mila in tutto. Tra loro, anche attivisti da tutto il mondo che si battono per la lotta al cambiamento climatico al grido di ‘giustizia climatica’. 

Questi attivisti, di qualsiasi età, genere, background e provenienza, esercitano un ruolo molto importante durante i negoziati poiché sollevano temi fondamentali e spesso controversi al fine di influenzare gli orientamenti e le decisioni degli Stati.
Per questo motivo, discussioni in materia di creazione e accessibilità dello ‘spazio pubblico’ (civic space), di partecipazione dal basso o di trattamento riservato ai cosiddetti “environmental defenders”, trovano ampio spazio nei side event di COP28. Noi di ICN ne abbiamo seguiti numerosi – ne abbiamo anche organizzato uno! -, e in questo articolo ne riassumiamo le considerazioni più importanti, insieme a una riflessione sull’inclusività a COP28. 

Partecipazione ai processi decisionali ed espressione del dissenso

Dal punto di vista del diritto internazionale, il tema della partecipazione è sancito in particolare nella Convenzione di Aarhus e nel recente Accordo di Escazù.
Entrambi si  occupano di tutelare l’accesso alle informazioni, la partecipazione pubblica e l’accesso alla giustizia nei processi decisionali in materia ambientale. In particolare, indicano gli standard di trasparenza e responsabilità necessari per instaurare un processo decisionale democratico e pubblico, che coinvolga ogni parte interessata in ogni decisione ambientale, dalla realizzazione di una diga a quella di un inceneritore.
Inoltre, sanciscono la protezione dei cosiddetti environmental defenders, spesso oggetto di criminalizzazione e di attacco da parte delle autorità governative o delle big corporations. Un tema questo che sta sollevando grande preoccupazione, tanto da dare origine alla nomina di Michel Forst come Special Rapporteur delle Nazioni Unite, con il compito di relazionare sulla situazione di chi difende l’ambiente e i diritti umani ai sensi della Convenzione di Aarhus. 

Michel Forst è intervenuto in molti side event per mostrare il suo impegno come Special Rapporteur, fornire il suo sostegno agli attivisti presenti a COP28 e denunciare gli abusi riscontrati nella sua attività di investigazione. In particolare al side event “No climate justice without human rights: civic space for a fossil free future” si è dimostrato particolarmente preoccupato per la situazione degli attivisti in Europa, che ha definito un “crackdown of environmental activism in Europe” (una dura repressione dell’attivismo ambientale in Europa).  

Come stanno andando le cose a COP28?

Per quanto riguarda la partecipazione in seno alle COP sul clima il discorso è un po’ diverso. Innanzitutto, è importante ricordare che le negoziazioni dell’UNFCCC (la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) seguono delle regole di procedura specifiche, che permettono a enti e organizzazioni – governative e non-governative, nazionali o internazionali – la partecipazione in qualità di osservatori formali (formal observer) a meno che non ci sia l’opposizione di almeno un terzo delle Parti presenti. Questo meccanismo permette ad ONG come Italian Climate Network e a molti attivisti di entrare alle COP, assistere alle negoziazioni ed esercitare in quella sede azioni di pressione, lobbismo o advocacy sui delegati dei Paesi. 

Tuttavia, nella pratica i problemi nell’accedere alle sale negoziali non mancano.
Infatti, queste regole di procedura hanno carattere provvisionale e non sono mai state ufficializzate dalle Parti, lasciando ampio spazio di discrezione per la loro applicazione. Inoltre, queste regole si applicano entro i confini della venue delle COP: al di fuori di essi l’azione degli attivisti è regolata dalle autorità del Paese ospitante. Questa è una considerazione importante da fare, specialmente per COP28. Gli Emirati Arabi Uniti non sono certo noti per l’osservanza e la tutela dei diritti umani, della democrazia e del dissenso politico.

Questi problemi hanno reso la società civile molto cauta nelle proprie azioni a COP28. Lo si nota anche dalla loro localizzazione, con le azioni – che devono ricevere esplicita approvazione dell’UNFCCC – confinate nella cosiddetta Blue Zone, che è sotto la giurisdizione della UNFCCC,e non nella Green Zone, sotto il controllo emiratino. Ma anche in venue, lo spazio pubblico per il dissenso si sta restringendo stando alla difficoltà riscontrata per organizzare la marcia tenutasi domenica 10 Dicembre dichiaratamente pro-palestina, un pessimo segnale per la società civile e le sue possibilità di azione. 

Inclusività 

Ci sono poi le ulteriori barriere di accesso da considerare. I processi decisionali in seno alle Nazioni Unite dovrebbero avere un buon livello di inclusività e democrazia. Tuttavia non è sempre così, o meglio il margine di miglioramento resta ancora molto ampio.
Numerose barriere continuano a impedire la partecipazione degli osservatori alle negoziazioni, e sono soprattutto le categorie di attori più deboli, come le donne, i giovani, le comunità indigene e le persone con disabilità, coloro che sperimentano maggiormente questi ostacoli. 

Il processo di accreditamento per l’accesso alle negoziazioni è uno dei principali ostacoli. È ancora difficile raggiungere le persone delle comunità più marginalizzate, e ancora più difficile portarle fisicamente a COP. 
Raggiungere le città dove vengono ospitate le Conferenze non è certo economico, e in mancanza di uno sponsor molti attivisti possono trovarsi costretti a rinunciare a partecipare, una criticità che avevamo sollevato anche l’anno scorso a COP27 (in questo articolo

A questo si aggiungono le difficoltà logistiche e i problemi infrastrutturali. Le portavoci della WGC (Women and Gender Constituency) hanno più volte sottolineato le loro difficoltà nell’avere formal observers portatori di disabilità a causa di tali barriere strutturali, presenti persino nelle venue delle Nazioni Unite, pensate da e per persone abili. Anche le barriere linguistiche rappresentano un ostacolo per molti attivisti e rappresentanti con una limitata conoscenza dell’inglese, e che riuscirebbero a esprimersi meglio nella loro lingua nativa. 

Dunque, al fine di ottenere un processo decisionale democratico, l’UNFCCC deve iniziare ad eliminare queste barriere al più presto per garantire rappresentatività e inclusività. Una COP inclusiva è una COP che lavora con i giovani, le donne, le comunità indigene e con portatori di disabilità; che si assicura che siano presenti, non solo come osservatori, ma che siano in grado di articolare le loro idee e la loro voce nel processo negoziale. È necessario, inoltre, che i criteri per assegnare le COP sul clima siano trasparenti al fine di assicurare l’inclusività e il rispetto dei diritti umani (gli Emirati Arabi Unite hanno siglato l’Host Country Agreement ma non ci risulta essere stato reso pubblico) e delle esigenze degli observers, ed evitare che conferenze future vengano organizzate in Paesi in cui i diritti umani non vengono osservati. 

Erika Moranduzzo, Coordinatrice della Sezione ‘Diritti e Clima’ e Alice Rotiroti, Volontaria a Italian Climate Network 

Immagine di copertina: UNFCCC

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