POLITICHE DEL CLIMA AL TAGLIANDO DI METÀ ANNO: A CHE PUNTO SIAMO?
Si è svolto ieri, nel campus delle Nazioni Unite a Bonn, in Germania, l’evento organizzato da Italian Climate Network dal titolo “Evaluating policies in uncertain times: pledges and politics between COP26 and COP27” (“Valutando le politiche in tempi di incertezza: impegni e politica tra COP26 e COP27”). L’evento, un side event ufficiale all’interno dei negoziati intermedi UNFCCC verso COP27, è stato co-organizzato con United Kingdom Youth Coalition on Climate Change (UKYCC, Regno Unito) e Greener Impact International (GII, Ghana). Le tre associazioni partner si sono ritrovate a sette mesi dall’evento del 3 novembre 2021 a Glasgow nell’ambito di COP26, nel quale avevano sottolineato le principali priorità politiche a livello negoziale e internazionale dal punto di vista dei giovani e della società civile, per fare un check di metà anno sui principali impegni e promesse contenuti nel testo politico finale di COP26, il Glasgow Climate Pact, oltre quelli individuali e multilaterali siglati fuori dalle sale negoziali.
L’evento, co-moderato da Jacopo Bencini (ICN) e Serena Bashal (UKYCC), ha visto la partecipazione di giovani attiviste ed esperte sui temi dell’adattamento, delle perdite e danni, della finanza, delle politiche di uscita dalle fonti fossili e transizione energetica e dell’inclusione giovanile nei processi di governance. Sono intervenute: Sandra Isingizwe (Loss and Damage Youth Coalition, Ruanda), Dolphine Magero (Global Youth Climate Action Fund, Kenya), Sarah McArthur (UKYCC) e Beatriz Pagy (Youth Climate Council e Clima de Eleição, Brasile), oltre agli stessi Bencini e Bashal. La sessione è stata altamente interattiva ed il panel ha avuto modo di scambiare impressioni e commenti con i molti partecipanti intervenuti in presenza a Bonn.
L’evento ha rappresentato un’occasione per monitorare l’avanzamento dei paesi rispetto alle promesse di Glasgow nei principali settori negoziali, ma anche di presentare buone pratiche o, al contrario, esempi di politiche non in linea con quanto necessario.
Per quanto riguarda le politiche di adattamento, si è sottolineato come il processo di redazione di piani di adattamento nazionali (NAP) stia proseguendo con il supporto delle Nazioni Unite in molti paesi in via di sviluppo – i Paesi sviluppati non dovrebbero avere bisogno di questo sostegno, eppure ad oggi neanche l’Italia ha ancora adottato il suo piano, fermo al Ministero dal 2017. Dai 26 piani nazionali esistenti all’alba di COP26 siamo passati a 36 piani a metà 2022. Sierra Leone, Ciad, Repubblica Centrafricana, Costa Rica e Madagascar hanno presentato i loro NAP proprio nei primi mesi del 2022. Tutto questo in un contesto apparentemente positivo a livello multilaterale: a COP26, infatti, i Paesi sviluppati si erano impegnati a raddoppiare le risorse devolute in finanza per l’adattamento entro il 2025, e già si erano visti impegni per portare ulteriori $356 milioni nel Fondo per l’Adattamento e contributi inediti per circa $413 milioni al Fondo per i Paesi Meno Sviluppati. Nonostante queste notizie positive, da Glasgow in poi tuttavia non è successo molto: in stallo il negoziato sul nuovo obiettivo globale per l’adattamento (GGA), che verrà probabilmente discusso in Egitto a fine anno; la finanza per l’adattamento continua a rappresentare solo un quarto della finanza climatica in generale e si stima che, senza aiuti esterni, i Paesi insulari più vulnerabili dovranno dedicare quasi l’1,4% del loro PIL ad azioni di adattamento – risorse che, a livello globale, tendono ad andare per quasi il 90% in costosissime opere infrastrutturali. Dall’interazione con il pubblico è emerso come governi e investitori continuino a vedere questo tipo di spese ancora troppo poco spendibile a livello internazionale (anche in termini di responsabilità sociale d’impresa) in quanto generanti effetti (e quindi ritorno e visibilità) a livello locale, mentre la riduzione delle emissioni climalteranti ha effetti di natura globale e quindi meglio spendibili.
Concretamente, dall’evento è emersa la proposta di rendere la redazione dei piani di adattamento – sia nei paesi che ancora non ne hanno uno, che in quelli che dovranno aggiornarlo – in linea con i requisiti partecipativi previsti dalle Nazioni Unite tramite l’apporto dei giovani, capaci più di altri di mobilitare fasce apparentemente disinteressate della società in processi decisionali così complessi.
Per quanto riguarda uno dei temi centrali di questi negoziati intermedi, le perdite e danni, i relatori hanno ribadito l’urgenza – manifestata anche fisicamente da alcuni attivisti durante i negoziati – per i paesi sviluppati di fornire finalmente strumenti e fori di lavoro chiari sul tema, contestualmente a risorse adeguate. Complessivamente il processo dei Glasgow Dialogues, la cui prima sessione si è svolta proprio in questi giorni a Bonn, non ha soddisfatto nessuno e non sembrano emergere prospettive concrete di altro tipo. Mentre nei paesi più fragili si assiste già da tempo a perdite irreparabili in termini di vite umane e infrastrutture strategiche (sia naturali che artificiali), i paesi più reticenti all’idea di stabilire un sistema di riparazioni tergiversano e rimandano la questione al termine dei tre anni di dialoghi. Interessante notare che contestualmente all’evento, a pochi metri di distanza, il gruppo G77 più Cina presentava in quel momento in plenaria una forte dichiarazione d’intenti, volta alla creazione di uno strumento su perdite e danni già a COP27, nel tentativo quindi di tagliare i tempi decisi a Glasgow di almeno tre anni.
Per quanto riguarda la finanza per il clima in senso lato, si è voluto sottolineare come non solo non sia stato fatto alcun passo avanti da COP26 rispetto all’obiettivo di dedicare $100 miliardi all’anno – obiettivo ormai stabilito e reiterato da Copenhagen 2009 – ma come anzi, dal recente G7 Ambiente e Clima non siano emerse novità positive in questo senso. Ancora più lontana quindi la definizione di un nuovo obiettivo globale per il periodo post-2025, ormai pienamente in corso. In termini concreti, si nota come le risorse disponibili in finanza climatica continuino ad essere direzionate principalmente verso la mitigazione a discapito dell’adattamento, principalmente per la più immediata comprensione quantitativa dei risultati – per un investitore o donor, comprare un milione di nuovi fornelli da cucina è sicuramente più vendibile e visibile, nell’immediato, che finanziare costose azioni di riforestazione o sistemi di allerta che potrebbero non servire prima di anni. Inoltre, per quanto riguarda le risorse provenienti da fondi di cooperazione internazionale, ancora troppo spesso la spesa sembra corrispondere più al concept progettuale che agli effettivi bisogni che emergono dal territorio. In generale, una questione sulla quale può essere utile soffermarsi e fare attivismo a livello nazionale è se il proprio paese abbia o meno gli strumenti adeguati a ricevere finanza climatica. Esiste un fondo nazionale per l’adattamento? Esiste un meccanismo nazionale di coordinamento tra enti e ministeri? In questo caso spicca, almeno sulla carta, l’esempio del Kenya che da qualche anno ha istituito 47 diversi fondi di adattamento, uno per ogni contea (regione) del paese.
Nell’evento si è parlato anche di politiche di uscita dalle fonti fossili, forse il tema più letto e commentato dopo l’esito della plenaria finale di COP26. Il conflitto tra Federazione Russa e Ucraina sembra aver modificato, velocemente e segnatamente, il panorama energetico europeo e del mondo sviluppato. A dispetto di quanto dichiarato dai principali governi europei, vi è un concreto timore che politiche di sostituzione del gas russo con altre fonti fossili nel breve termine possano diventare strutturali secondo la trappola del lock-in, per la quale potrebbero dover passare troppi anni prima che sia possibile investire in tecnologie diverse (rinnovabili) da quelle oggi necessarie, nell’emergenza, per far ripartire infrastrutture fossili fino a ieri sulla via dell’abbandono – in questo senso, proprio in settimana il governo tedesco aveva comunicato la rimessa in operatività di alcune centrali a carbone da tempo in dismissione. Similmente, si registrano nuovi investimenti in fonti fossili da India (in particolare sul carbone) e Cina, nonostante importanti politiche di promozione delle rinnovabili secondo un trend ormai consolidato. Un passo indietro, purtroppo, anche da parte della Costa Rica (membro storico dell’Alleanza per superare petrolio e gas, BOGA), che in controtendenza con il suo storico posizionamento pro-rinnovabili ha recentemente annunciato, con la nuova presidenza, nuovi investimenti in esplorazione di giacimenti di gas naturale.
Complessivamente, i relatori hanno concordato sull’opportunità per i paesi più ambiziosi di continuare a lavorare extra-negoziato su accordi multilaterali a piccoli gruppi, quindi secondo il sistema a due velocità emerso a Glasgow – si pensi in questo senso agli accordi stilati su metano, nuove esplorazioni in oil and gas, forestazione e uscita dal carbone. Ne abbiamo parlato, a suo tempo, in un articolo sul nostro sito.
Per quanto riguarda, infine, la governance dell’attivismo giovanile, a valle di un 2021 molto positivo con l’introduzione, a fianco dello storico processo YOUNGO/COY (il gruppo costitutivo delle Nazioni Unite dei giovani del mondo), del processo Youth for Climate dietro iniziativa del Governo italiano, ci si è chiesti come rendere questa molteplicità di opportunità effettivamente utile nel processo. In sintesi, come convogliare al meglio l’energia dei giovani che seguono i negoziati nel processo formale. In questo senso dal panel è emersa le necessità di istituzionalizzare la partecipazione giovanile nei processi anche oltre i fori esistenti a livello internazionale investendo piuttosto nei livelli nazionali: utile, in questo senso, promuovere quote di partecipazione obbligatoria dei giovani nelle politiche nazionali, regionali e locali sull’ambiente, così da poter stimolare la nascita o il rafforzamento di realtà locali, che possano poi convogliare in maniera più organica il messaggio giovanile ai governi anche tramite i propri rappresentanti territoriali. Sono quindi stati portati numerosi esempi di organizzazione dal basso in questo senso.
A conclusione dell’evento, i co-moderatori hanno ricordato che scopo dell’evento era quello di redigere per punti quanto emerso in un documento da consegnare al processo YOUNGO tramite le conferenze giovanili sul clima dei rispettivi paesi. Italian Climate Network e UKYCC lavoreranno in Italia e nel Regno Unito in questo senso già dalle prossime settimane.
La registrazione integrale dell’evento è disponibile, in lingua inglese, sul canale YouTube delle Nazioni Unite cliccando su questo link: https://t.co/JV1ljXRlIy
Articolo a cura di Jacopo Bencini, Policy Advisor e UNFCCC Contact Point