CLIMA E DIRITTI UMANI: L’IMPEGNO DELLA SOCIETÀ CIVILE OLTRE L’UNFCCC
L’INTERSEZIONALITÀ COME CHIAVE PER RENDERE TRASVERSALE L’AZIONE CLIMATICA
Le azioni che verranno intraprese nei prossimi decenni per contrastare le cause e gli impatti dei cambiamenti climatici saranno sempre di più al centro di ogni aspetto dell’amministrazione di ogni società sul pianeta. Le Conferenze delle Parti (COP) della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) in particolare sembrano influenzare sempre di più l’agenda di altri organi ed entità delle Nazioni Unite, rendendo evidente come non si possa più affrontare nessuna sfida societaria senza tenere il clima in considerazione. Questa non è una novità per quella parte della società civile che lavora su tematiche legate a clima, ambiente e diritti umani, ma per moltissimi specialisti e decisori politici, questa nuova dimensione ha preso forma soltanto negli ultimi anni.
Numerosi membri della società civile provenienti da tutto il mondo sono attivi all’interno dei negoziati sul clima delle Nazioni Unite e lavorano per l’integrazione di principi dei diritti umani all’interno dei testi negoziali, per assicurarsi che in nome della riduzione delle emissioni non vengano distrutti altri ecosistemi e/o violati i diritti delle persone. In molti casi le stesse organizzazioni attive all’interno delle COP, lavorano in altri spazi delle Nazioni Unite tradizionalmente dedicati ad altre tematiche, facendo nello stesso tempo pressione per lavorare in maniera sempre più intersezionale, ovvero considerando trasversalmente i complessi legami tra ambiti prima considerati indipendenti tra di loro.
IL CLIMA ALL’INTERNO DEL CONSIGLIO PER I DIRITTI ECONOMICI E SOCIALI
La società civile, nell’intento di accelerare l’integrazione di ambiti interconnessi tra loro nella realtà, ma convenzionalmente divisi nella macchina istituzionale delle Nazioni Unite, opera anche all’interno del Consiglio Sociale ed Economico (ECOSOC). Il Consiglio è uno degli organi principali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e ha funzioni consultive e di coordinamento dell’attività dell’ONU in materia di cooperazione economica e sociale e di promozione e tutela dei diritti umani. Per anni la società civile ha fatto pressione perchè le conseguenze del clima sull’ambiente e i diritti delle persone fossero considerati come parte integrante di ogni aspetto del lavoro del consiglio. Uno dei risultati di questo incessante lavoro di pressione politica si è visto nel 2015, quando con la conclusione degli “Obiettivi di sviluppo del millennio” (Millennium Development Goals – MDGs), l’ECOSOC ha cercato di rimediare alle carenze del programma (che all’epoca copriva solo otto aree d’azione), ampliandolo. Il programma, rinominato “Obiettivi dello sviluppo sostenibile” (Sustainable Development Goals – SDGs), non solo include un concetto legato a clima ed ambiente nel proprio nome (la sostenibilità), ma ha tra i suoi 17 obiettivi anche l’azione climatica (SDG13).
VERSO l’HLPF: LA SOCIETÀ CIVILE AL PARTNERSHIP FORUM
L’avanzamento degli SDGs viene monitorato attraverso un meccanismo di consultazioni (Regional Forums) e revisioni nazionali volontarie (National Voluntaries Reviews – VNRs) coordinate all’ECOSOC High Level Political Forum, la principale piattaforma delle Nazioni Unite dedicata allo sviluppo sostenibile a livello globale che si riunisce in plenaria ogni luglio. Tra gli appuntamenti parte di questo meccanismo c’è il Partnership Forum, evento che mira a favorire la collaborazione tra governi, settore privato, no-profit e società civile per trovare nuove soluzioni per lo sviluppo internazionale.
Quest’anno la ripresa dalla pandemia di COVID-19 è stata al centro dell’agenda del Forum, facendo emergere le diverse priorità tra paesi ricchi e a basso/medio reddito. Nonostante la ripresa economica e sociale dal COVID-19 sia strettamente legata alle azioni ambientali e climatiche che dovrebbero essere intraprese sulla base delle decisioni prese in questi anni ai negoziati sul clima delle Nazioni Unite, le menzioni alla COP26 di Glasgow e all’azione climatica sono state poche. Il Pakistan e il Bangladesh hanno richiamato i risultati della COP26, richiamando all’urgenza di trovare fondi per la finanza climatica e il fondo per il risarcimento di perdite e danni causati dai cambiamenti climatici (Warsaw International Mechanism for Loss and Damage associated with Climate Change Impacts). La Colombia ho sottolineato l’importanza di coalizioni come il patto globale dei leader per la natura e il partenariato globale per gli oceani, contributi importanti per rilanciare l’ambizione di processi chiave come l’attuazione dell’Accordo di Parigi e la costruzione di un quadro globale per la biodiversità (uno degli obiettivi dell’Agenda 2030). L’Italia ha concentrato il suo intervento sul valore della cooperazione internazionale, facendo una breve menzione alla giusta transizione, raccomandando un “patto globale per promuovere i valori delle Nazioni Unite e pratiche commerciali responsabili (…) mirando ad ottenere lavoro dignitoso per tutti riducendo le emissioni di gas serra e gli impatti negativi sulla biodiversità”. L’intervento più comprensivo è arrivato dal Botswana, che ha lanciato un appello a ristabilire il valore della solidarietà internazionale, evitare di replicare pratiche di sviluppo non sostenibili adottate prima della pandemia e rilanciare il supporto finanziario per lo sviluppo e l’azione climatica per garantire maggiore sicurezza e rispetto dei diritti umani a livello internazionale.
Ancora una volta è stata la società civile a cercare di far emergere le contraddizioni di un meccanismo che sta perdendo la sua democraticità. Le collaborazioni tra diversi settori promosse in ambito internazionale dal Partnership Forum possono portare a nuove soluzioni e fonti di finanziamento per lo sviluppo, ma non devono rimpiazzare il sistema di governance democratica delle Nazioni Unite. Emilia Reyez, Direttrice per l’organizzazione Equitad de Genero, ha racchiuso le preoccupazioni della società civile nel suo intervento, sostenendo che è preoccupante che le Nazioni Unite stiano affidando aspetti chiave della governance internazionale ad attori del settore privato a cui non sono imposti controlli stringenti sull’impatto sociale ed ambientale del loro operato, mentre i tradizionali meccanismi a protezione dei i diritti umani istituiti dopo seconda guerra mondiale sono sottofinanziati e quindi indeboliti. Questa “riforma” silenziosa del sistema delle Nazioni Unite rischia di perpetrare modelli di cooperazione dannosi coinvolgendo attori con obiettivi antidemocratici, edulcorando il programma degli SDGs, l’azione climatica e la protezione dei diritti umani.
Articolo a cura di Chiara Soletti, Coordinatrice Clima e Diritti Umani