LE FERITE DI COP26 BRUCIANO ANCORA – E LA GUERRA NON AIUTA
Finiscono due settimane di negoziati intermedi sul clima e con essi, probabilmente, un’epoca di mezzo tra COP26 e ciò che sarà il mondo a novembre tra conflitti in Europa, elezioni in Brasile ed elezioni mid-term negli Stati Uniti. Il tutto verso una COP27 che ormai, a meno di cinque mesi dal fischio d’inizio, si prefigura come – quale che siano gli esiti delle dinamiche citate – la prima mondiale di uno scenario geopolitico sicuramente inedito.
Nel bene o nel male. In questo senso era forse lecito aspettarsi qualcosa in più dai negoziati di Bonn: sarà possibile, nel mutato quadro internazionale che potrebbe vedere un generale indebolimento dell’ambizione occidentale a causa dei rattoppi di guerra agli energy mix e di un Biden forse non più sulla cresta dell’onda, spingere COP27 verso risultati globali degni di nota verso gli obiettivi di Parigi? Non solo a livello di politiche internazionali, ma in particolare per tutte quelle popolazioni che hanno bisogno adesso, subito, di risposte.
Ci si chiede se non siano state riposte troppe aspettative in un negoziato tecnico. Probabile. Questo negoziato, tuttavia, era anche un test per i dialoghi di Glasgow su perdite e danni, andati in scena nelle giornate del 7, 8 e 11 giugno, con grande delusione sia degli osservatori che di molti degli stessi Paesi partecipanti. La tre giorni, come abbiamo avuto modo di raccontare in due recenti articoli, è stata un susseguirsi di dichiarazioni impostate e prive di contributo politico (in particolare da parte dei paesi ricchi), almeno finché il gruppo G77 più Cina nel pomeriggio di sabato non ha giocato la carta della politica, o per meglio dire dell’esasperazione: i delegati G77 hanno chiesto, avendo ormai tutti capito che i dialoghi non avrebbero portato a niente di concreto, di sorpassare uno strumento nato già debole e tornare invece al piano originale poi ammorbidito in Scozia, quello di lanciare uno strumento finanziario vero e proprio sul tema delle perdite e danni già a COP27. Contrari, su tutti, gli Stati Uniti, che da principali responsabili storici del problema del riscaldamento globale non hanno alcuna voglia di contribuire con risorse nuove e aggiuntive ad un nuovo fondo internazionale, per il quale tutti inevitabilmente guarderebbero a Washington come apripista obbligato. Riprende una battaglia politica tra Nord e Sud del mondo quindi, con l’amministrazione Biden non troppo lontana dai meno ambiziosi nell’ostacolare questo processo di solidarietà.
Questo negoziato doveva essere un test anche per il primo bilancio globale degli sforzi, o stocktake, rispetto alle promesse dei Paesi sotto il grande ombrello dell’Accordo di Parigi. Le sessioni si sono svolte in maniera aperta con grande partecipazione degli osservatori, un qualcosa di abbastanza inedito visti il tema ed il setting, quindi, con discreta soddisfazione della società civile. A livello di contenuti, tuttavia, neanche su questo filone si sono visti passi avanti importanti o degni di nota, salvo l’approvazione di mere note procedurali come del resto avvenuto nella maggioranza degli altri gruppi di lavoro. L’apertura dei lavori alla partecipazione della società civile ha innervosito le delegazioni storicamente più ritrose all’inclusione degli osservatori; Arabia Saudita, India, Cina, Brasile hanno chiesto che nel documento finale delle due settimane fosse messo nero su bianco che il processo di global stocktake avrebbe dovuto rimanere un processo guidato dai Governi; Canada, Australia e molti Paesi latinoamericani hanno opposto questa risoluzione. Al termine di ore di discussioni, è stato (non) deciso che il processo dovrà essere “guidato dalle Parti, con la partecipazione dei portatori di interesse non-statali”. Similmente, come riportato da IISD, pare che i delegati abbiano dedicato ore, discutendo tra Paesi sviluppati e Paesi del Sud del mondo, per decidere cosa fare dei corsi di formazione per esperti in merito alle revisioni dei rapporti biennali delle emissioni dei Paesi Annex I, complessivamente una questione da €13.000 euro tra 2022 e 2023 (un niente, a livello globale), senza giungere ad alcuna conclusione e rimandando l’argomento ai prossimi negoziati.
Questo in generale il tono di molte delle discussioni nelle sale. Solo su uno dei temi più complessi, la messa in opera dei nuovi meccanismi di mercato per le emissioni secondo l’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi – ne avevamo parlato qui – sembrano essere stati mossi piccoli passi avanti verso Sharm El-Sheikh, con tutti i caveat del caso.
Anche se mancano solo cinque mesi, COP27, come dicevamo, prenderà il via in un mondo (politicamente parlando) probabilmente abbastanza diverso da quello attuale. Se è vero che da questi negoziati intermedi non sembra essere emerso alcun passo avanti su questioni vitali (finanza per il clima e loss and damage su tutti), il futuro potrebbe sorprendere, in positivo come no. Lo scatto di disperazione dei Paesi in via di sviluppo al termine della terza sessione di Glasgow Dialogues lascia presagire una COP calda, ancora scottata dal finale concitato di COP26 e dalle diverse letture politiche che nel mondo ne sono state date. Nei prossimi mesi, intanto, secondo quanto stabilito a Glasgow i Paesi dovrebbero presentare nuove promesse nazionali (NDC) aggiornate e migliorate nell’ambizione: importante monitorare questo processo e capire a quanto ancora ammonterà il gap globale dalla traiettoria di Parigi all’inizio di questa prossima, ormai imminente COP egiziana.
Articolo a cura di Jacopo Bencini, Policy Advisor e UNFCCC Contact Point